Recensioni
Chi gli agi fugge per amar naufragi? – Franco Fortini
L’INVERNO
Le mie voglie, più sterili che belle,
Volano via. Voi lo sentite, rondini,
Si dissipa il tepore, avanza il freddo.
I nidi siano altrove. Non turbate
Di ciarle i sonni, di sterco le mense.
Dorma in pace la notte del mio inverno.
Scarso si trae ormai sul mondo il sole.
Meno scalda ma illumina costante.
Senza rimpianti mi tramuto, quando
Di falsi amori fatui mi rimorde.
L’inverno amo, che me di vizi monda,
Di morbi l’aria, di serpi la terra.
Candido il capo gravano le nevi.
Stempra quei geli il sole che mi è lampada
Ma scioglierli non può, corto è febbraio.
Nevi, scorrete al cuore in freddi rivi
Né cenere arda che altri incendi avvivi
Quali, cinto di fiamme, un giorno amai.
Spenta la vita, già non sarò spento.
Lampeggerà di me lo zelo santo
Ardente per la santa arca divina.
Sia dei miei resti un olocausto ai templi,
Ghiaccio ai fuochi empi, rèsina ai celesti,
Torcia raggiante e no funesta fiaccola.
Breve il piacere ma breve la doglia.
Di usignoli silenzio e di Sirene.
Nessuno, vedi, i frutti e i fiori coglie
Né speranze lusinga ombra di bene.
Beata estrema età l’inverno viene
Che tutto gode e più non dà travaglio.
Ma prossima è la morte e a una immortale
Vita, chiusa la falsa, apre le porte,
Vita di vita e morte della morte.
Chi gli agi fugge per amar naufragi?
A chi, più del riposo, il viaggio piace
E il lungo errare è più dolce del porto?
(Franco Fortini, “Composita solvantur”, Einaudi, 1994)
L’allegoria – piuttosto che il simbolo – è stata in tutta la produzione fortiniana elemento tipico, fino agli ultimi anni di “Paesaggio con serpente” e, appunto, “Composita solvantur”, da cui è tratto il testo che qui si propone. Moltissimi i temi che emergono in questi versi, espressi in una forma che tende al “classicismo perenne”, definizione che si risolve in una specifica disposizione dell’animo che trasfigura il patrimonio tradizionale in un’esatta dimensione di ricerca e gusto, piuttosto che in una sterile contraffazione formale e linguistica del passato.
Gli argomenti sono di feroce attualità esistenziale: l’allegoria, appunto, è la cornice dell’inverno – in cui il poeta incroda una particolare fase della maturazione della coscienza, quella della perdita del desiderio. Vi è distacco dalla storia e senso di spossessamento, altri motivi tipici di Fortini, nonché un senso ieratico di comunione (e dispersione dell’io) all’elemento naturale, presente in più testi della sua ultima raccolta.
Penso ad alcuni versi celebri dei sonetti a Orfeo di Rilke: “c’è tra gli inverni uno così infinito / che, se il tuo cuore sverna, resiste ormai per sempre.” – sostenere l’apogeo della sofferenza e della pena comporta un successivo disincanto, uno svuotamento così assoluto che tutto appare insufficiente – per quanto non riesca più a ferire.
E dunque: il desiderio vola via, il tepore svanisce – la natura lo comprende, e l’unico desiderio è quello di un silenzio più grande (“non turbate / di ciarle i sonni … dorma in pace la notte del mio inverno”). Il sole illumina ogni cosa, perché la ragione impedisce alla fantasia ingenua del buio di creare, ma evidenzia solo l’oggettiva natura delle cose – e infatti è un sole che scalda meno; gli amori si sono rivelati falsi, l’io lirico si riscopre “senza rimpianti”, e l’amore è solo per la stagione del freddo, che “me di vizi monda, / di morbi l’aria, di serpi la terra”.
“Non uso vizio nel significato di abuso, che è una corruzione della parola; intendo dire mancanza, insufficienza, deficienza, nello stesso modo che si dice vizio cardiaco, vizio mentale”, scriveva Ungaretti – ed è forse questa una interpretazione interessante per il vizio del testo fortiniano: il freddo dell’inverno libera da quel senso di insoddisfazione, di insufficienza, che è alla base del morso del desiderio, in una condizione in cui “quei geli” scorrono al cuore “in freddi rivi”, senza possibilità che il sole “altri incendi avvivi”. Gli stessi che, si confessa, “un giorno amai”. Silenzio, si diceva: degli usignoli come delle capziose Sirene, senza che alcuna “ombra di bene” possa offrire la lusinga di una speranza.
Eppure vi è una serenità disumana in queste parole, non vi è alcuna inquietudine, insofferenza, alcun turbamento: “beata estrema età l’inverno viene / che tutto gode e più non dà travaglio”.
L’accettazione di questa condizione, risultato di grandi sommovimenti, di grandi passioni (tendono al passato le locuzioni “cinto di fiamme” e “cenere arda”) è sorprendentemente naturale, è una vera e propria comunanza, sacrale, al biancore della stagione, ma soprattutto, al mistero della fine e della provvisorietà della vita stessa (va evidenziato: si tratta “del mio inverno”).
L’ultima strofa rivela il volto dell’allegoria invernale: “prossima è la morte”, e la sensazione di un eterno riposo, di cui tale sentimento è un indizio in vita, appare accogliente e pacifica. Dopo tanto disincanto che senso avrebbe l’amore verso altri rischi, che si risolverebbero in ulteriori delusioni? “Chi gli agi fugge per amar naufragi?” (si noti la maestria della rima interna inclusiva: gli agi sono contenuti nei naufragi, nonostante ciò che il dettato sembrerebbe dire).
A chi, più di un sereno e arreso cedere al riposo di un silenzio “immortale” (il “porto”), cui l’inverno dell’esistere “apre le porte”, piace più “il viaggio … e il lungo errare”?
Il testo sembrerebbe dire “a nessuno” – ma non lo fa. Non viene detto: la domanda è troppo importante per cedere a una soluzione così semplice, e la sapienza di Fortini, in questi versi, è quella di consegnare interamente il peso di un disincanto così assoluto.
Saperlo sostenere è il prezzo, nonostante tutto nel testo inviti a un abbandono di ogni tensione per congiungersi alla pace silenziosa e disumana del gelo, per riuscire a rispondere: navigare necesse est – il viaggio è necessario – non vivere.
Mario Famularo
Utenti on-line
Ci sono attualmente 26 Users Online