Da Cage a Cave, breve viaggio nello spazio bianco

a cura di Pier Angelo Cantù

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Quella cosa con lo spazio bianco a destra.
È una definizione di poesia che amo. Un salto di paradigma che sposta il punto di osservazione dal contenuto alla pagina, dilata il campo dello sguardo, costringe a indagare i punti di intersezione tra la parola e altre forme di espressione artistica.

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È soprattutto nella poesia che la parola non dice tutto. La poetessa etnomusicologa Amelia Rosselli diceva che: “Una problematica della forma poetica è stata per me sempre connessa a quella più strettamente musicale, e non ho mai in realtà scisso le due discipline, considerando la sillaba non solo come nesso ortografico ma anche come suono, e il periodo non solo un costrutto grammaticale ma anche un sistema. […] noi contemporaneamente pensiamo. In tal caso non solo ha suono (rumore) la parola; anzi a volte non ne ha affatto, e risuona soltanto come idea nella mente.”
Le sue parole ci traghettano nel viaggio di sinapsi che porta da John Cage a Nick Cave. Un grado separa i due nel cognome, mentre la figura del traghettatore identificato dal cantautore australiano come custode silenzioso di un pensiero, chiude la triangolazione con la Rosselli.

Cage porta all’estremo il trait d’union tra suono e silenzio nel suo celeberrimo 4’33 , punto di arrivo che non ha ancora trovato ulteriori sviluppi. Lo concepisce dopo aver passato qualche tempo nella stanza anecoica dell’università di Harvard: “Ora non ho più bisogno di un pianoforte, ho la 6th Avenue con tutti i suoi suoni”. Nel brano, che si dipana nell’assenza di suoni pur avendo una precisa partitura in tre movimenti ben definiti sul pentagramma, Cage intuisce il silenzio come parte dell’esperienza di ascolto. Una sorta di fonte sonora che “sposta l’occhio” sui rumori ambientali: un colpo di tosse, il cigolio di una sedia, il brusio. Un elemento laterale molto simile allo spazio bianco a margine delle parole. Il silenzio assoluto non esiste, denuncia Cage, e se esiste procura disagio (e cosa dovrebbe procurare la poesia se non disagio, straniamento, confusione?).

Rimaniamo su Cage e sulle sue provocazioni.
Nella sala di un teatro, il Lirico di Milano, la sera del 2 dicembre 1977 va in scena un concerto intitolato “Empty Words (Parte III)”. All’epoca, la Cramps di Gianni Sassi aveva pubblicato due album di musiche di Cage, riconosciuto come esponente di avanguardia della musica internazionale. “Empty Words” si basa sul Journal di Henry David Thoreau e ha una durata complessiva di dieci ore. A Milano, Cage decide di portare in scena la terza parte del testo, una sequenza di frasi che diventano parole e infine sillabe, il tutto intervallato da silenzi al fine di suscitare un senso di perdita progressiva del baricentro dal testo, con l’ausilio dei suoni d’ambiente e di immagini proiettate, senza apparente connessione, disegnate dallo stesso Thoreau.

La faccenda viene però mal gestita dagli organizzatori e dai media, in primis le radio libere che, spacciando l’evento per un concerto, si trovano il teatro gremito da un pubblico impreparato, formato per lo più da giovani che pensavano di assistere a una performance in stile Frank Zappa.
Certo, il periodo fortemente politicizzato, ambiguo, caratterizzato da un coagulo di contraddizioni perpetrate sotto il denominatore comune di “alternativa” (vedi i concerti finiti male al Parco Lambro un paio di anni prima) autorizzava l’accostamento tra le composizioni di Cage e una certa aria di rivoluzione serpeggiante che mirava a incenerire i cardini della musica classica e del rock stesso, all’epoca pervaso dagli onanismi virtuosistici del progressive.

Questi equivoci trasformarono presto la performance in un happening nel quale il pubblico dapprima si sentì autorizzato a partecipare attivamente, successivamente, sentendosi incastrato in una modalità sconosciuta simile più a uno sberleffo, reagì nel più reazionario dei modi con urla, proteste e minacce fisiche allo stesso Cage. Che nel frattempo continuava imperterrito, seduto davanti a una piccola scrivania illuminata da una lampadina, a leggere il suo testo. L’artista continuò l’esibizione fino alla fine, chiudendo, nell’apoteosi di un pubblico riconvertito all’istante, tra applausi e cori da stadio. Una discreta sintesi dell’evento, diventato in seguito anche un album doppio registrato e prodotto dalla stessa Cramps che includeva il testo letto da Cage, è facilmente reperibile su YouTube.

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In quegli anni, il concetto di esplorazione dei tratti di unione tra parola, musica e teatro, viene sviluppato con risultati eccellenti e grande efficacia sulla cultura giovanile anche in un ambito mainstream più legato all’industria discografica.

Nel febbraio del 1973, data del Foxtrot Tour dei Genesis al Rainbow Theatre di Londra, a insaputa della band, Peter Gabriel indossa per la prima volta sul palco per tutto lo show alcuni costumi e maschere; evoluzione di un concept iniziato l’anno precedente con il vestito da donna e la testa di volpe indossata sul finale di The Musical Box.

Travestimenti spettacolari intrisi di metafore che spiazzano anche pubblico e stampa (“Peter Gabriel ha creato un mostro”), impreparati a gestire una tale debordante personalità artistica, sfociata qualche anno dopo nella messa in scena del disagio esistenziale di The Lamb Lies Down on Brodway, con l’urgenza di fondere in un tutt’uno musica, testi e performance. Il personaggio di Mozo, ideato da Gabriel per creare uno storytelling funzionale allo scopo, aveva affascinato anche il regista Jodorowsky, ma la trasposizione cinematografica non fu portata a compimento. Nel frattempo, Gabriel aveva già spostato l’obiettivo verso la creazione di una musica sperimentale in compagnia di Robert Fripp.

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Il leader dei King Crimson è l’anello di congiunzione che ci porta a David Bowie. Cinque anni prima dell’esperienza berlinese con Fripp e Brian Eno, Bowie inventa il personaggio di Ziggy Stardust identificando se stesso in un incrocio di espressioni artistiche incarnate nella figura di un alieno androgino piombato sulla terra per avvertire l’umanità di una fine imminente. Il personaggio viene rappresentato nei concerti con un travestimento pesante: capelli rosso fuoco, tutine aderenti e simboli dipinti sull’occhio destro. Le performance sono trasgressive e coinvolgenti, al punto che ogni aspetto della vita privata di Bowie finisce per esserne pervaso.

Con un grande colpo di teatro, l’artista decide di defilarsi, dando addio al suo alter ego chitarrista spaziale: il 3 Luglio 1973, durante un mitico concerto all’Hammersmith Odeon di Londra, il cantante annuncia il ritiro di Ziggy Stardust e ne celebra il funerale sul palco. Lasciando in eredità al rock una corrente geniale che ancora oggi influenza artisti di tutto il mondo. Dal sodale Marc Bolan ad Achille Lauro: il glam è la soluzione che spiazza sempre l’audience con travestimenti che confondono i confini sessuali e artistici di genere.

In un salto in avanti di dieci anni troviamo un Nick Cave stufo dei cliché del punk imbastardito e psicotico dei Birthday Party. Inghiottito in un universo di alcol ed eroina, il nostro ha comunque la lucidità di focalizzare come perno di ogni ulteriore contaminazione artistica il deflagrante potere della parola e il sondaggio degli archetipi. Una rivoluzione che lo condurrà, nel giro di qualche anno e dopo immani fatiche, a scrivere il primo romanzo gotico, E l’asina vide l’Angelo. Le vicende di Euchrid Eucrow, anello più basso dell’umanità sulla via di una redenzione anticonvenzionale, consentono all’autore di portare sulla pagina alcune delle proprie personali ossessioni letterarie: Poe, Faulkner, O’Connor, Perec.

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Ma è con Lydia Lunch, una delle tante amanti usate come grimaldello verso nuovi percorsi intellettuali, che l’inquieto musicista riesce a trovare una quadra tra parole, musica e performance. Cave le consegna alcuni testi abbozzati e lei lo costringe a concluderli passando insieme, chiusi in una stanza, due settimane. Il progetto è folle: scrivere cinquanta atti unici concepiti con l’intento di sovvertire ulteriormente le modalità suggerite da Antonin Artaud per ridare un’identità al teatro. Rappresentazioni brevi, violente e profane allo scopo di ridurre alla totale sottomissione il pubblico, in luogo del misticismo filosofico vagheggiato da Artaud.

Il ruolo del pubblico ci riporta alle provocazioni di Cage.
È un pubblico affamato di mistero, ma incapace di comprendere lo spazio vuoto a lato di qualsiasi espressione artistica. Gente indistinta che va portata alla catarsi, oppure vessata, perché solo così potrà reagire al di fuori della grammatica in loro possesso e adottarne una nuova. Disorientamento, rifiuto e infine l’applauso – non si sa se liberatorio o esorcizzante. Lo spazio bianco, che sconvolge ancora oggi nella poesia e che ha generato incommensurabili creatività nell’incontro con la musica e con il teatro, è quindi quel luogo immaginario vuoto e sempre da scrivere.

Più prosaicamente, è ciò che ci manca qui per evocare altri percorsi: quelli dei Soft Machine verso la patafisica, dei Pere Ubu nella messa in scena di un post punk intriso di radici colte, del legame creativo (da vivi e da morti) tra Lou Reed e Andy Warhol, dell’incrocio tra Robert Wilson e Tom Waits. Ma anche di Carmelo Bene con la sua phoné (“Ci è dato soltanto nel delirio del linguaggio nominare le cose, non conoscerle”) delle diplofonie di Demetrio Stratos e chissà quanti altri ancora.
Un percorso che speriamo di avervi stimolato a proseguire, riempiendo voi stessi il vostro spazio bianco a lato di quel qualcosa che già sapete.