Da mani mortali. Biancamaria Frabotta

Da mani mortali. Biancamaria Frabotta 

 

Scrive Cristina Campo ne “Gli imperdonabili”: “Un tempo il poeta era là per nominare le cose: come per la prima volta, ci dicevano da bambini, come nel giorno della Creazione. Oggi egli sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini, teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte. Per scrivere i loro nomi sull’acqua: forse su quella stessa onda levata che fra poco le avrà travolte. […] Chi oggi non è conscio di questo, non è poeta d’oggi”.
Biancamaria Frabotta, poeta d’oggi, è di certo conscia di ciò. Nella sua raccolta “Da mani mortali” (Mondadori 2012) la parola è in sintonia con la cosa, o meglio, con la natura. Bisogna saper attendere, aspettare che passi il tempo lungo del letargo. “Oltre la soglia del letargo”, poesia e natura sono pronte per il risveglio, per rinascere con “l’astuzia dei deboli”, con un ritmo lento, senza fretta, si può (si deve) ricominciare l’eterno lavoro.
Scrivere, dunque, è stare in ascolto, tentare di cogliere “la verità muta dei campi”, consapevoli che lenti saranno i progressi e, magari, disordinati. Si potrà, poi, tagliare, e nuovi e vigorosi saranno i getti. Magari cambiando verso, che qui ha il respiro ampio, controllato, e tesse un filo che vibra come chi si posa e poi lascia la presa, che è leggera.

Quando non ci sei
è più facile lasciare il letto
e il debole biancore dei sogni.
Disertando punta in alto
lo sfrontato pettirosso.
Nell’aria che lo risucchia
vibra come una vena
che si va svuotando
il filo dove s’era posato.

Nel giardino i biancospini “aspettano pazienti”. Il biancospino, dal fiore casto, puro, è pianta robusta, spinosa. I romani lo dedicarono a Maia, dea della castità, i cristiani alla Vergine e le bacche rosse richiamano il sangue di Gesù.

Aver voluto e volere sono una cosa sola
nel giunco reciso che agito nell’aria
virgulto di bacche, vivo folto di foglie
su cui si sente ancora odore di sangue.

L’ostinazione a durare è delle piante e di noi tutti (“ottusa pazienza di durare” “Ostento l’indole permalosa degli ostinati / un cuore leggermente brachicardico”), ma non c’è guida che indichi come cogliere i segreti, “la verità muta dei campi”. Tuttavia, “La pianta è un cantiere sempre aperto”. Senza forzarne lo sviluppo, perché si corre il rischio di bucarsi gli occhi “nel gelo di febbraio”, sotto lo sguardo “acuto” del biancospino. Nel cantiere le parole agiscono con circospezione, in fondo si è esuli del (nel) proprio giardino, che si ostina anch’esso, ritirandosi, se non si è in grado di seguirne i tempi.
A lungo hanno agito, nella poesia di Biancamaria Frabotta, i poeti di riferimento, i modelli che lei definisce “zoomoralisti”: Marianne Moore, Francis Ponge, Montale, che “pendolano dalla vita all’animale e dall’animale alla vita” (“Quartetto per masse e voce sola, Donzelli 2009, p. 11). Una scrittura in “viandanza”, il cui movimento non esclude lo stare (“La viandanza” è un libro uscito per Mondadori nel 1995).

Vorrei il tuo fiuto acuto
bastardino sconosciuto
ma non per dissotterrare
quell’afrore speciale
della preda stordita dalla caccia
o sotto un velo di foglie imputridite
il trionfo fetido del tartufo
cui viene riconosciuto tanto prezzo.
Vorrei dire sì al tuo tremante sì
infaticabile cuore battente
per tutti una fiera bandiera.
Altro non m’invoglierebbe
dentro la folla degli odori.

Si vuole qui il fiuto di chi consente alla vita, dire quel sì sarebbe sufficiente, non occorrerebbe altro, siamo invece esposti a noi stessi, nervi scoperti (“sono il tuo nervo scoperto / alba impietosa che incupisci i filari della vigna / e togli un altro giorno all’anno.”).
Altri modelli compongono la geopoetica di Biancamaria Frabotta: Amelia Rosselli, Giorgio Caproni, Franco Fortini, Toti Scialoja, testimoni di libri-mondo. Ogni libro, scrive nella premessa ai saggi critici che ha dedicato agli ultimi tre poeti citati, “può essere letto come una testimonianza”, ogni opera “è la testimonianza di una rinuncia”. Perché, in fondo “…alla resa conta / soltanto ciò che più non si racconta”.
In “Da mani mortali” lo sguardo è quello di chi vede il mondo già postumo, il seme è la malinconia.
Poi, all’improvviso, fedeli alla viandanza, ritornano, a sorpresa, i poeti, come fantasmi.

Sono come i fantasmi
i poeti che ritornano
fra chi meno li aspetta.
Come loro
in eterno costretti
a pendolare
sulla stessa tratta.

Ma sanno anche, i poeti, quando “accomiatarsi”, quando “uscire / dalla fila”. 

Rosa Riggio