Dalla parte di Syd

Pensieri disordinati sulla letteratura di oggi rileggendo Rosso Floyd di Michele Mari

 

a cura di Pier Angelo Cantù

Nelle antologie della letteratura italiana degli anni a venire, Michele Mari troverà un posto d’onore. Per fortuna. Purtroppo, gli studenti se lo dovranno spartire con bufale di gran classe come Alessandro Baricco (il Crodino degli egoscrittori nazionali) e Margaret Mazzantini (soprammobile cult da esibire nei salotti radical chic).

Anche la poesia non se la passa proprio bene, per dirla in modo benevolo. Le quattro parole con spazio bianco a lato prodotte in serie dagli scribacchini che vanno per la maggiore sui social, ne raccontano miserie e povertà senza bisogno di ulteriori indagini.

Il pubblico poi fa la sua parte. Lo spiegava bene lo scrittore (e lettore) argentino Ricardo Piglia in un’intervista di qualche anno fa: “Il concetto di pubblico inesperto deriva da quello di cliente inesperto che non sa scegliere un libro in libreria, tanto che un insieme di specialisti, dal responsabile del marketing al pubblicitario fino al critico, sono preposti a orientare il suo gusto letterario”.
Scherzando, ma neanche troppo, se abbiamo davvero a cuore le sorti del pianeta dovremmo scendere tutti in piazza a denunciare lo scempio degli alberi sacrificati per portare in stampa una produzione letteraria così scarsa, non più in grado di anticipare le tensioni della società reale, priva ormai di una sua peculiarità.

Tornando a Mari, come Tuena autore amato da tutti e letto da pochi, è fuori discussione la sua eccellenza in ciascuno dei principali generi letterari che finiscono oggi su libro: saggi, romanzi, poesie, perfino fumettistica e letteratura ibrida.

Un raro caso, in una cerchia molto ristretta, di letteratura maiuscola in lingua originale italiana emersi dopo la morte di Levi, Pasolini, Calvino e Morante, in quel triste calderone di copia e incolla che troviamo da un paio di decenni tra gli scaffali delle novità.

Nella letteratura ibrida, che Mari definisce “non-libri per una resistenza all’avvento della nuova barbarie multimediale” il mio preferito è “Rosso Floyd”.

Gioca a favore di questa predilezione una personale smisurata passione per l’artista Roger Keith “Syd” Barrett e per l’immaginario che ancora rappresenta il fondatore dei Pink Floyd, nel libro protagonista in contumacia, seppur perno di tutta la narrazione, rievocato in ogni pagina dalla carrellata di persone informate sui fatti chiamate a testimoniare sul mistero della sua esistenza e sui riflessi in quella del gruppo.

Una sorta di istruttoria che si dipana in 30 confessioni, 53 testimonianze (di cui 11 oltremondane), 6 interrogazioni, 3 esortazioni, 15 referti, una rivelazione e una contemplazione. Un teatro del pretesto per trovare una qualche ragione o un colpevole della follia autolesionista che ha portato Barrett a una “morte” prematura, ben prima di morire anagraficamente il 7 luglio 2006 all’età di sessant’anni.

Pink Anderson, Floyd Council, Brian Jones, Joe Boyd, inevitabilmente Robyn Hitchcock: sfilano una pletora di personaggi famosi e nomi sconosciuti richiamati per un momento dall’oblio; tecnici vari, fidanzate, familiari, amici e molto altro. Viene data parola perfino ad Arnold Layne, il bizzarro protagonista dell’omonimo brano, una delle tante genialità del Barrett autore di musiche e testi nella prima fase di ascesa dei Pink Floyd.

Senza tema di smentite, si è di fronte alla più profonda e articolata disamina mai stata scritta sul gruppo originario di Cambridge in lingua italiana. Una parata infinita che genera il più riuscito e affascinante universo di frattali in cui un appassionato della band e della musica di quegli anni può imbattersi.

Nemmeno la veterotestamentaria critica musicale, infatti, è mai riuscita a spingersi a tanto nel servirsi di verità puntuale e messa in scena allo scopo di scandagliare tali vicende, anche forzando le chiavi di lettura quando necessario. Ad esempio, identificando Barrett, per bocca di Alan Parker e Bob Geldof, come vera figura ispiratrice di Pink, il protagonista di The Wall, al posto dello scontatissimo Waters.

Pur conoscendo ogni cosa nei minimi dettagli, da maniaci appassionati sappiamo benissimo che non ci stancheremo mai di ascoltare questi racconti per l’ennesima volta (mentre scrivo sono alla terza lettura completa del libro) cercando quella sfumatura dimenticata o quell’elemento inedito che placherà la nostra inestinguibile sete.
Insomma, stiamo al gioco.

Mari calibra in modo perfetto gli elementi necessari e li impasta in uno stile di scrittura discontinuo, radicalmente reinventato a servizio dell’identità del singolo convenuto. Un gioco di complicità e di ruoli di cui l’autore si serve per tenere alta l’attenzione, dosando col bilancino verità assoluta e finzione funzionale, sempre ancorate all’identità del percorso dell’autore nel suo insieme, e del suo ritrovarsi perennemente antagonista, in questo uno dei pochi accostabili a Manganelli certi di non bestemmiare.

Verità e finzione che, peraltro, hanno sempre fatto parte in modo insolubile della storia del gruppo, alimentate dalla stessa band in un gioco di dissimulate metafore e chiaroscuri indecifrabili.

Ad esempio, quel celeberrimo episodio del 5 giugno del 1975 negli studi di Abbey Road, vero o meno consegnato comunque alla verità storica, qui rievocato dall’uomo gatto Dave Gilmour alla sua terza confessione (il topo è Wright, il cane è Mason, mentre Waters è un misuratissimo uomo cavallo).
Mari ha il merito di esplicitare il suo intento nelle prime pagine, mettendo in bocca a Roger Waters la chiave di lettura perfetta per proseguire senza intralci e godere dello spettacolo: “Quando tutto è rosa non si distinguono bene i contorni degli oggetti, quando tutto è fluido le forme evolvono l’una nell’altra e quello che fino a un attimo prima era vero diventa falso. E il falso diventa vero…”.

Una sfida difficilissima per un autore iperletterato ai limiti dell’isolazionismo (tratto che lo sovrappone, con i dovuti distinguo, allo stesso Syd Barrett), quella di scendere sul terreno di una materia viscida, in quanto popolare, come analizzare l’evoluzione delle vicende dei Pink Floyd con e senza Barrett (ammesso che un senza sia possibile) riuscendo a trasformarle in un viaggio nei meandri della vita di ciascuno, lettore compreso, fruibile anche come ottima letteratura in sé, nel caso non si fosse coinvolti nelle vicende narrate.

Mari assume il ruolo di voce fuori campo, nelle vesti di un silente pubblico ministero che interroga ed estorce confessioni, facendo leva sull’ambivalenza tra il cinismo e il senso di colpa dei convenuti – su tutti quello di Roger Waters.

Nel gioco delle ambivalenze, l’uomo cavallo viene spesso additato come il grande burattinaio dell’estromissione del folletto dalla band, quindi principale colpevole delle brutte conseguenze sul suo stato mentale.

Anche perché, lo dicono in molti, l’unico a essere tornato sui luoghi del delitto al solo scopo di portarsi via l’anima di Barrett per rivendersela mille volte, nella messa in scena ossessionata dei propri sogni fuori norma, in un’escalation di tour sempre più giganteschi cominciata coi deliri di Dark Side e passata poi agli altri componenti nel loro A Momentary Lapse Of Reason, affiancandola all’altra ossessione che lo accompagna dalla nascita, cioè non aver mai conosciuto il padre morto in guerra ad Anzio. Trauma che ha disseminato l’intera vita di Waters di una lunga scia di morti e feriti.

Ma all’uomo cavallo si finisce per tendere quasi sempre una mano, nella girandola di umanità che accompagna le storie minuscole di cui è fatto questo libro. Perfino il rivale Gilmour (quello che ha preso il posto di Barrett) gli rende onore per il lavoro solista di The Final Cut, e lo giustifica per averlo portato in tribunale a contendersi la titolarità del brand.

In “Rosso Floyd” non sono solo verità e finzione a dissolvere i propri limiti nell’acido (è proprio il caso di dirlo); altre insanabili dicotomie escono da questo collegio giudicante virtuale tenendosi saldamente unite, sempre nel gioco delle ambivalenze.

L’amore e la morte, ad esempio, nel rovesciamento del paradigma con cui pensiamo ancora con convinzione che la morte di un individuo coincida con il suo decesso.

Al contrario, si può morire molto prima, come sappiamo, per mano nostra o di qualcuno che ci ama al punto tale da recidere le espressioni che solitamente l’amore lo nutrono, consegnandoci all’oblio, unica possibilità per farci vivere più a lungo, magari per sempre, nella memoria di una nuova vita. Esattamente ciò che è capitato a Syd per mano dei suoi sodali.

Di contro, nel gioco della finzione, chi è morto può farci vivere per sempre.
E’ l’uomo topo Wright a riconoscerlo, dopo aver dato ascolto a Barrett, apparsogli in sogno per aiutarlo a completare la stesura finale di “The Great Gig in The Sky”. Come? Trasfigurando il brano da inno alla morte a celebrazione dell’amore fisico. L’invenzione con cui Mari fa capitare Clare Torry in delirio estatico-vocale nella sala di registrazione, con la complicità di Syd, è una trovata assolutamente geniale.

Anche l’amicizia e la perfidia, così come la lucidità e la follia, finiscono per riconoscersi come due volti della stessa luna, in cui nessuno incarnerà la parte oscura perché, come ricorda Gerry O’Driscoll, il portinaio irlandese di Abbey Road, ogni volta che la puntina termina la corsa nel finale di Eclipse: “There is no dark side in the moon, really. Matter of fact it’s all dark. The only thing that makes it look alight is the sun”.

La rossa mano destra dei sicari dell’estromissione di Barrett dal gruppo, appartiene agli stessi corpi che, con la generosa e umanissima mano sinistra lo aiutano a realizzare i due album da solista, nei mille casini di una stanzetta degli studi di Abbey Road – come ricorda Robert Wyatt.

Nell’ottava lamentazione il marchigiano Marzio Acquaviva, direttore di uno dei più importanti siti dedicati a Barrett, viene convocato tra le pagine per illuminare ulteriormente con una nuova commovente “verità” la potenza dei legami all’interno di quel nucleo: Syd non fu cacciato perché era impazzito, impazzì perché lo stavano cacciando.

Potremmo continuare all’infinito con la discesa di Mari negli inferi della vicenda Barrett: la spunta di ogni testimonianza ci porterebbe a ulteriori nuovi minuziosi percorsi di verità e finzione.

Prendendoci le stesse licenze di cui l’autore si è servito per narrare i fatti, azzardiamo allora che ci sembra di cogliere in “Rosso Floyd” una grande metafora sullo stato della nostra letteratura.
Che sia Barrett – artista visionario, al contempo lucido e folle, ragazzo affascinante, carismatico e talentuoso, pittore allucinato, cantante per necessità, chitarrista dallo stile inimitabile, pietra preziosa dell’ispirazione (il diamante pazzo) donata generosamente fino allo stremo di sé e nel nascondimento – la figura che incarna alla perfezione la famosa solitudine dello scrittore, concetto oggi così dimenticato?

Il seme biblico piantato nel terreno che deve marcire, morire e trasformarsi per far germogliare una nuova vita (il romanzo) adombrando se stesso (l’autore) fino al nascondimento? In fondo, è ciò che accade anche nell’esperienza genitoriale, simile all’atto creativo dello scrivere per lasciare qualcosa che resterà immortale.

Nel caso narrato, unica possibilità per far nascere un albero dalle radici solidissime chiamato Pink Floyd, macchina da guerra e da soldi, multinazionale della nostalgia che per rimanere in vita ha avuto bisogno di portarsi dentro il fantasma di Barrett in ogni successivo passo.

E’ qui che si manifesta il punto di contatto con la letteratura e la poesia di oggi, chiassose, iperprodotte, improduttive, figlie sperdute della grande letteratura. Creature che sembrano nascere non dall’idea di un forte sogno, bensì generate a tavolino da apparati editoriali senza identità. Opere che crescono e si diffondono prive dell’anima fanciullesca (l’anima del giovane Syd) depredate fin dal concepimento della purezza creativa, unica difesa capace di combattere i demoni perniciosi delle aspettative del mercato, del voler piacere a tutti i costi e gli esibizionismi necessari per mantenere alta la visibilità in questa triste vetrina.

Lo scrivo nel periodo in cui si annunciano le cinquine dei vari premi (Strega, Campiello, fate voi), convitti incartapecoriti in cui gli editori in auge si spartiscono con il metodo del Manuale Cencelli i libri che saranno portati nelle librerie dei centri commerciali, destinati a durare la stagione di un ombrellone per poi finire al macero.

Libri pensati a tavolino, fatti scrivere da autori fotocopia senza ideali e slanci innovativi, tutti in difesa della propria “no man’s land”, disperatamente aggrappati a qualcosa che non faccia scivolare loro stessi e il mercato del libro nella follia dell’oblio. Qualcosa che però paghiamo tutti a caro prezzo. Parafrasando la Regina Amidala nella Vendetta dei Sith: “è così che muore la letteratura: sotto scroscianti applausi”.

Interrogato da un giornalista francese sui manierismi descritti in “Se una notte d’inverno un viaggiatore” Calvino avvertiva: “Vivo sempre nella speranza d’incontrare un romanziere che sia semplice, naif, e che dica qualcosa di veramente nuovo. Ma non ne incontro fra i contemporanei”. Forse lo avrebbe trovato in Michele Mari leggendo “Rosso Floyd”?

A proposito di parallelismi, che ci crediate o no possiedo una copia in vinile di “The Madcap Laughs” in cui la puntina si inceppa esattamente su “No Man’s Land”, nella prima facciata dell’album. Esattamente come il protagonista del romanzo di Calvino è costretto a incepparsi ogni volta su un nuovo incipit.

Salvo rari casi, dopo ogni lettura piena di speranze di molti romanzi o silloge di produzione italiana che oggi mi finiscono tra le mani, rimane in bocca il retrogusto di una motivazione insincera, che poco ha a che fare con la finzione tipicamente letteraria, perché figlio di un’altra finzione superiore messa a presidio di tutto quanto, ossia l’imbroglio costruito dal lavoro di un’equipe incaricata di confezionare quel determinato prodotto che dovrà funzionare nei primi mesi in cui sarà esposto.

Un imbroglio in grande stile, come la gloriosa storia dei Pink Floyd dopo Barrett, che pure abbiamo amato, perché a suo modo una grande storia. Noi, però, continuiamo a stare dalla parte del sogno.
Quella di Syd.