Approfondimenti
Dell’abisso, o la poesia. Il poeta è uno scrivano (Rosa Riggio)
Dell’abisso, o la poesia.
In “Bartleby o della contingenza”, a proposito della natura del nous (il pensiero o la mente) Giorgio Agamben ricorda le parole di Aristotele, per il quale l’intelletto è una tavolozza dove non c’è scritto nulla e, dunque, il nous “non ha altra natura che quella di essere in potenza e, prima di pensare, non è in atto assolutamente nulla”. Il saggio di Agamben prende le mosse dal famoso racconto di Melville “Barleby lo scrivano”, di cui vuole rintracciare la “costellazione filosofica”. Bartleby, com’è noto, è lo scrivano che rifiuta, ad un certo punto, il compito per cui era stato assunto nello studio di un anziano avvocato newyorkese, ossia scrivere, copiare. Rifiuto riassumibile nella famosa formula: “preferirei di no”, ripetuta con mite distacco e quasi senza varizioni, fino al tragico finale. Sulle ragioni del rifiuto, che non è un semplice no, ma qualcosa che contiene un’altra possibilità, la possibilità “di non fare”, hanno scritto centinaia di critici. Niente, come l’assenza apparente di senso, è capace di generare uno straordinario fiume parole, spesso davvero insensate. L’essere, d’altra parte, parla un linguaggio misterioso, anche quando non dice nulla. E, se di mistero si tratta, bisogna andare a rintracciarne le origini nei cabalisti, come lo spagnolo Abraham Abulafia (che di Aristotele era lettore) o nei sufi, come l’andaluso Ibn-Arabi. Il primo concepiva la creazione “come un atto di scrittura”. Dunque Dio parla, in quanto verbo, nelle lettere dell’alfabeto. E il secondo concepiva l’essere puro come “una lettera di cui tu sei il senso”.
Dio scriba supremo, noi alfabeto divino, inchiostro in cui si manifesta la potenza dell’essere o l’essere in potenza. E qui siamo al punto. In quanto Bartleby, essendo colui che potrebbe scrivere e non scrive, rappresenta “l’ultima, stremata figura” della “potenza perfetta”, ossia la possibilità di essere e, insieme, di non essere. Scrittura e creazione sono sullo stesso piano. Niente a che vedere con la volontà o la necessità, perché queste appartengono alla legge, ad un sistema morale illusorio che non riguarda Bartleby. In lui Agamben vede non un difetto di volontà, ma la potenza. Mistica e cabalistica, la costellazione filosofica a cui appartiene Bartleby, rispondono così all’enigma della sua formula perentoria. Da quel nulla, da quell’abisso radice di tutte le cose, essenti in quanto in potenza, si genera tutto. Solo chi è capace di guardare questo nulla che “eternamente si genera” è capace di creare, di diventare poeta. Agamben scrive in modo chiaro una verità che riguarda pochi temerari, che è al di là della nostra stessa volontà: “Solo nel punto in cui riusciamo a calarci in questo Tartaro e a far esperienza della nostra stessa impotenza, diventiamo capaci di creare, diventiamo poeti”. Tuttavia ciò non è sufficiente. Bisogna essere in grado di far nascere dal nulla qualcosa, annientare, come scrive Ibn-Arabi, il nulla. E’ poeta colui che è capace di sopportare quel tartaro, in bilico non tra l’essere e il non essere, ma tra l’essere e il poter non essere, capace di eccedere entrambi. Quando Bartley smette di copiare, interrompe l’eterno ritorno, de-realizza il linguaggio e mostra l’irredimibile volontà di non volere. E’ l’origine, il movimento immobile, realizzato in se stesso. Qualunque sia la verità, e al di là della verità, ciò che conta è la possibilità di accedere all’essere, di farne esperienza. La poesia sta in quel punto immobile, mai fisso, dove il tempo è insieme passato e futuro, fuori dall’eterno, pura contingenza.
Così Eliot, nei “Quattro quartetti”:
[…]
“Al punto fermo del mondo che ruota. Né corporeo né incorporeo;
Né muove da né verso; al punto fermo, là è la danza,
Ma né arresto né movimento. E non la chiamate fissità,
Quella dove sono riuniti passato e futuro. Né moto da né verso,
Né ascesa né declino. Tranne che per il punto, il punto fermo,
Non ci sarebbe danza, e c’è solo la danza.
Posso soltanto dire: là siamo stati, ma non so dire dove.”
Bartleby, con la sua finale afasia, annuncia, in definitiva, l’essere. Il silenzio come cifra di ogni possibile. Figura perfetta di questi possibili è il Palazzo dei destini di Leibniz, che ha la forma di una giganteca piramide, la cui base sprofonda all’infinito. Lì, da sempre, sono contenuti tutti i mondi possibili, tutto ciò che poteva essere e non è stato.
Eliot:
[…]
“Ciò che poteva essere e ciò che è stato
Tendono a un solo fine, che è sempre presente.
Passi echeggiano nella memoria
Lungo il corridoio che non prendemmo
Verso la porta che non aprimmo mai
Sul giardino delle rose. Le mie parole echeggiano
Così, nella vostra mente.”
[…]
Tutte le cose sono possibili, ma non tutte sono. Allora il poeta salva ciò che non è stato, restituisce l’eco dell’ala nera, quella parte in ombra a cui la sua voce, sempre, rimanda.
Rosa Riggio
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