DIZIONARIO DELLA PARABOLA

a cura di Ianus Pravo

Auschwitz, non alba né città dov’io vado, non Kafka o Amleto sul corallo del padre, lo spazio del salario per non dire, per non dividere il segreto, per non aprire l’Auschwitz che protegge in rubedo ogni Atene dell’uomo, oltre l’Atene l’Auschwitz, l’oltre del padre al figlio. Auschwitz, orrore per quanto è realtà, cioè per quanto è retorica – per quanto è verità è bellezza.

Bellezza è la luce che si spegne tra un sorriso e una lacrima, Belial, lucifer moritor come un Cristo di fuochi artificiali, bagascia, che mi parla chiaro sul suo prezzo e a cui ubbidisco chinando la testa, proteggendola nel buio della mia mente. Proteggendola dal suo prezzo. Occhio con cui gioco a biglie, decrepito bambino dal lacrimoso cazzo.

Cazzo, interiettivo, ah! oh!, dove non posso più dire nulla, significante senza significato, e poi claustro della mia mano, carta della mia parola, cadavere della mia morte, cazzo offerto alla tortura, purché sia la Tua, purché sia la certezza del tuo sguardo, quaesivit caelo certum, la poesia che non m’importa un cazzo, una livida rosa o un negro diamante.

Diamante, o rosa, vani come Dio, dementia precox come un diamante o una rosa o un Dio, non c`è bellezza al Dio, c’è la vanità della colpa, che è Dio, sotto le Porte Scee del non segno, il dado rimasto nel pugno, il dado che non rotola e non fissa il numero del delitto, non accende la luce al castigo, al dardo in lotta col perdono, l’uno all’altro Eco.

Eco, Narciso a Colono, Edipo allo specchio, parole per niente e per nessuno, voce che ha la pietà di chiudere gli occhi al suicida, esilio dall’immenso dovere dell’Eros, esilio dall’infinito volere dell’Eros, dimora nella non dimora dell’osceno, nell’ebete piacere del porno. Eco, rumore dal fondo della terra, rumore di fondo della terra.

Fondo, animale di fondo, disse Juan Ramón. La solitudine del corridore di fondo. Nel frattempo -io sono un frattempo, sarà tra poco l’intervallo, il mio- fottere fino all’estenuazione, in un angolo fetido, mentre un rigagnolo di orina mi unisce a Filomela, morto amore al lato mio giace, simile alle feci in cui nasce, e la sua fica è un gioco di società.

Gioco, posseduto dall’abbandonata bellezza della lacrima, mentre la speranza lo è dalla volitiva volgarità del pianto. Se lo scherzo mette in salvo la nascita, il gioco la smentisce. Non ho generazione, sono l’agénnêtos, il non nato, il vile. Una forma di conseguire in vita la non generazione è abbandonarsi al gioco, al sonno dello scherzo, a Hölderlin.

Hölderlin, nulla deve succedermi, Hölderlin Zwas never nacht, io ho il Neckar come una murena bianca, come un verso che sempre ha luogo e mai è, e il labbro azzurro di Hegel s’inclina e beve azzurro, confessa, non è carne, hapax legómenon, l’hashshash, l’assassino assassinato, tu Giuda ucciderai la carne che mi ricopre, lacererai questo imene.

Imene, Iudas è l’imene intatto sulla fica di Iesus, Vergine dell’oscillazione, un vertice d’Impiccato per amare l’orizzontalità della Vergine. I do not find the Hanged Man. Io voglio lacerare l’Imene della Vergine, io voglio amare il mio cazzo d’Impiccato, voglio che mia madre bambina non si tolga dal mio cazzo, infantile lacrima.

Lacrima, fiore inverso, non rosa aulentissima, né rosa di plastica, ma rosa artica, fiore che non esiste, lacrima senza pianto, queste sono lacrime che furono perle, le perle più preziose, le perle perdute, le luci di bellezza sul Dio. I morti come luci di bellezza sul Dio, di lentezza e di bellezza sul Dio, lacrime come orina sulle mani per scaldarle.

Mani, copula del manicomio, mura dell’orina su cui grida l’infermiere, mura come mani, mi orinai sulle mani per scaldarle, le mura come mani, questa è la mano di Muzio, la mano in fiamme dell’alba, un’unica volta vacilli la mano, le mani dell’impiccato sulla corda, le onde del mare numerare.

Numerare, pregare è numerare le onde del mare, Narciso è il conteggio degli occhi d’un cieco, un numero infinito d’occhi, Ulisse è un Narciso che lancia la luce del suo nome sullo specchio oscurato dell’occhio ciclopico, Neckar o palude, farai un vers de dreit nien: negato, agli uomini di buona volontà, l’ozio che è Dio.

Ozio, origine del vizio di Dio, origine come omega dell’alfa, il ludo testimone all’Altro, l’Occludo sul potere del ritmo che ozia duplicato sui corpi degli amanti. Oh dell’orgasmo, otto perfetto dell’infinito finito, anello di Möbius in cui è uguale il diritto e il rovescio, Otranto di Occído e Óccido, bianco cieco della pagina.

Pagina, vento bianco sulla pagina, e la pagina sul vento, la pagina che non esiste sul vento che non esiste, che è vento perché non esiste, pagina patria mia, a cui, perché mia, io sono estraneo, persino la morte è a rischio sul nome della patria, pagina che smerdo di parole come sperma eiaculato con paura, pagina prostituta, chi ti chiamò alla vita? La quaestio.

Quaestio, va posta con il diritto alla pietà della non risposta. Quos ego, io mi fermo a questo, all’interiezione, prescindo dal sed motos praestat componere fluctus, mi fermo al sussurro, io sono la tigre del sussurro, qua è l’atto che si toglie dall’azione, tu quoque, quarzo che amo sulla schiena della notte, io sono la furia di una rosa.

Rosa, il vino e la feccia ricolmano i calici come rose implose a ventre, rosa di fica, Ira Rosae de de dreit nien, Dies Rosae de dreit nien, vengono gli uccelli come rose, beccando nella mano il dolore ch’essi sono, come violenza lenta delle rose al cadavere, vengono uccelli come sogni, nel mio salario vengono gli uccelli come rose.

Salario, sogno che ha derubato la mia notte, senza il salario della notte, l’alba ha un prezzo troppo alto. Pago un salario al mio viso sorridendo a una troia, mi pago un salario scegliendo la sbronza al posto della salvezza, alla salvezza preferisco la sbronza, perché ancor più dell’umano mi ripugna la sua reliquia, non ho altro salario che il sorriso, non ho altro sorriso che la Tau.

Tau, la croce decapitata. Sulla mano porto una cicatrice a forma di Tau. Ma cos’è l’acefalia di una croce? È il Dio decapitato, ma lo è nel corpo o lo è nel segno? Tiger burning bright. In the forests of the night. Tigre, che nell’argot carcerario castigliano significa cesso, questo tradimento del sublime, tigre-tanfo sulle labbra cercando ubbidienza.

Ubbidienza delle labbra a crescere pane di sè, lasciami ubbidire alla tua bellezza, lasciami chinare il capo e proteggerti nel buio della mia mente. La mia anima-foglia, Bellezza, leggera va in cerca del Padrone, il Padrone è l’ultima stazione dell’origine, è lo sguardo di Orfeo alle proprie spalle, dove Euridice è rimasta unico verso.

Verso, questo misurare facendo ritorno, questo Orfeo che ritorna all’inferno, ancora, ancora e sempre, questa Euridice che chiede il ritorno all’inferno, ancora, ancora e sempre, landvermesser dell’inferno, verità che è stadio superiore della falsità, la vera falsità, il vino degli assassini e degli amanti, il vomito di Peter Punk, lo zero a cui l’uno manca.

Zero, se lo zero è qualcosa che non raggiunge l’uno, è l’allegrezza di Cristo fatta due, siamo due a spaccare un unico cervello, amore senza nome, siamo vicini allo zero, ed il terrore incendia la sua aquila, ciò che non è occhio tra due sguardi, senza gli occhi un volo lento tra l’aridità e la madre, l’amante ebrea di Auschwitz.