E invece sono cenere

Una poesia di Valeria Gentile, dalla raccolta inedita “La sopravvissuta”.

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“Fuoco acceso, ovvero: una sera d’autunno”

Tra terra, cenere, vette, dirupi e crepe la poesia di Valeria Gentile cerca una lingua madre, ma che sia universale, scritta nella “grammatica del nulla”, in un tempo infinito. Essere stati dall’altra parte, tornare, scoprire di poter parlare tutte le parole e restare tuttavia costretti tra “questo e quel nulla”, non interrompe il canto. Come nella precedente raccolta “Invece sono fuoco”, anche qui c’è il fuoco, ma la Gentile ha maturato la consapevolezza che insieme al calore che da conforto, c’è anche l’orrore, l’impossibilità di una rivincita. Da questo a quel nulla, diventa “invece sono cenere” questa poesia verticale, in “metamorfosi coatta”, dove la la temperatura sale, tra abisso e cielo, dal fuoco all’azzurro argenteo, fino al colpo di coda della morte. Il respiro è fumo e aria perfetta, un’apertura che cancella, come gesso, senza memoria, eppure l’aria è “come una fine bella”.
Scrive Cristina Campo ne “Gli Imperdonabili” che la verità parla per “iperboli esatte” ed “è sempre un po’ più grande del vero”. Il linguaggio della Gentile parla per iperboli, perché una volta sentita, la verità, va detta e lei ne avverte la musica, le parole sono le note, ma la voce è più vasta dello spartito e nasce dalla combustione. Bisogna accettare l’orrore (“il fuoco / come un assassino amico”), perché magari c’è una verità più grande, la cui grammatica è tutta da scoprire, e da scrivere.

Fuoco acceso, ovvero: una sera d’autunno

Che gran delirio
di piacere e pena. Con il suo carico
di calore e distruzione
calore e distruzione – il fuoco –
insieme rombo
vitale e immensa disperazione
si arrampica su volute e rivoli di fiamme
come se niente – il mondo – potesse
resistergli, sopravvivergli intero.

Che forte conforto e insieme che orrore!
Non solo perché tra le sue avide braccia
schizzano fuori dai turgidi tronchi gli insetti,
scorrendo i propri ultimi istanti sul filo
ruvido dei rami. Non solo
– uniche scintille nere sui contorni
del groviglio che brucia – non solo
– e adesso pullulano
oltre il granito del camino ubriache le formiche,
allontanandosi a mano a mano che
la temperatura si fa
più alta – dicevo, non solo,
ma anche i pezzi di legno
devono perire sotto l’onda
della combustione – il fuoco –
accendendosi anch’essi senza possibilità di rivincita.
Sulla via del non ritorno, abbracciati
e sgraziati, perdono
a poco a poco la naturale fragranza, la
friabilità e, poi, ogni fremito. S’apprestano
ora a nuove basse tonalità
di crepiti e scoppiettii, decretando di soppiatto
– il fuoco – il vincitore.

Quanto soave tepore ristoratore della sera! Eppure,
sotto lo spettacolo luminoso di scintille e bolle
che strepitano d’impazienza, escono piano,
dai fori,
sbuffi fumosi e altri animaletti,
cauti e incerti tra le scaglie di corteccia che ora
si staccano, come in una muta forzata
o una metamorfosi coatta.
Ed ecco che i ceppi, prima
ben riconoscibili, si anneriscono
– nuvole di formiche discutono su
quale sia la strada di casa, una nuova –
fino a colorarsi di pece
sotto il procedere incalzante del falò diffuso.
Sale al comignolo un impalpabile
flusso grigiastro, i gatti
dormono sogni di gatti,
la tendina lascia intravedere i boschi
di lentisco tra i ricami. Finché lentamente,
vicino agli ultimi insetti estasiati
dagli effetti del fumo – oh, che stupefacente
sostanza venuta dal rogo! –
ciò che un tempo era legno ora giace
sul fondo come bianco
manto di gesso. La cenere
– una polvere compatta che ha già
dimenticato d’esser stata
legno vivo – è morta, baciata
dalle ultime lingue brillanti
sui mozziconi corvini.

Come le intermittenze cangianti
sulla superficie irregolare del camino, la stanza
oscilla tra calore e stordimento – il fuoco –
calore, stordimento, la poltrona come un porto franco,
lo stordimento e il calore – il fuoco
come un assassino amico –
perfezione e stordimento, svenimento,
una musica in sottofondo – la morte come
un pianoforte a coda – una perfezione
argentea, perfezione di sospiri
– ora dalle fessure dell’ultimo ciocco –
spire di ardore errante e vista annebbiata,
l’aria come una fine bella,
l’aria finita,
salita insieme al fumo su nel cielo.