Elsa di Angela Bubba (Ponte alle grazie, pp. 438)

a cura di Paolo Marati 

« Immergere la spada fino all’elsa » ossia « essere pronti al combattimento, alla lotta» (p. 13). Ma « nessuna spada somiglia a un’altra spada » (p.14) , tanto più che tale arma non è nient’altro che « la fantasia » (p.423).

Ognuno si difende secondo la propria indole, in un mondo dominato da maschere grottesche, dalla cattiveria istintuale, dall’impossibilità di trovare un equilibrio tra il sé del momento e la realtà sfuggente. Ognuno si difende sguainando la propria spada-fantasia, e aggredisce per proteggersi dalle sproporzioni del reale, deciso illusoriamente di scacciare i fantasmi personali che lacerano l’essere e che incanalano il pensiero in una galleria senza uscita fatta di desolazione e di angoscia.

Elsa Morante non è razionale e atea come il marito Alberto Moravia. Lei è selvaggia e cattolica praticante. Si sforza per tutta la vita di trovare una definizione risolutiva di cosa sia il bene e di cosa sia il male, ma l’impresa si rivela impossibile: la sua vita è segnata dalla decisione di abortire presa quando era poco più che un’adolescente. Tuttavia il figlio non nato, Arturo, è sempre con lei, eternamente ragazzo, dotato di una purezza disincantata, per nulla ingenua, sempre in contatto con la sua negazione, minacciata dalla morte delle speranze e dalla morte vera e propria.

Elsa Morante è una donna di sicuro speciale, ma pur sempre una donna. La maternità che si è negata comporta una proiezione di sé nella madre Irma, che disprezza, o nella suocera, già liquidata durante il pranzo di nozze. Il falso e disperato padre Augusto, il vero ma evanescente padre Francesco, morto suicida, sono rimpiazzati da un uomo stimato ma al contempo detestato, forse mai amato. Un uomo, Moravia, che, dal suo canto e con i suoi modi asettici, rimane, viceversa, sino alla fine innamorato di lei, se è vero che la più forte dimostrazione dell’innamoramento, « la più grande frase d’amore » (p. 309), consiste nel chiedere se il partner ha mangiato (domanda cha Moravia porrà anche pochi mesi prima del decesso della moglie).

Elsa non riesce a intrecciare un’amicizia che non sia superficiale con le donne. Lei punta agli uomini. Ma alcuni amici si rivelano deludenti, marchiati dal demone del sadismo: Luchino Visconti, con il suo animalesco egoismo sessuale; Pier Paolo Pasolini, con la sua violenza gratuita nella stroncatura della Storia, con la sua inattesa mancanza di « gentilezza » (p. 380). Il confessore, il controverso don Pietro Tacchi Venturi, non risulta essere un padre spirituale perfetto, vista la sua assenza nel momento del bisogno. Un altro uomo ancora, anzi un ragazzo, Bill Morrow, non può essere né un vero amico né un vero amante, ma soltanto un sostituto di Arturo; sennonché il suo eccesso di vitalità, la sua genuinità caparbia, non si adattano a un mondo contrassegnato dal dolore e dalla sconforto, dall’ipocrisia e dal più bieco egoismo, ma sono destinate all’abbandono volontario di sé.

In un’esistenza così difficile, affrontata con una problematicità innata e caparbia, per la Morante rimangono soltanto due punti fermi: i suoi gatti, con il loro affetto spontaneo, e la convinzione che soltanto i ragazzini, Arturo compreso, siano in grado di salvare il mondo.

Angela Bubba è affascinata da Elsa Morante, ma non le fa sconti. È simpatetica ma anche intellettualmente onesta. Nel suo ottimo romanzo non intende scivolare nell’agiografia, ma desidera mostrare una donna non soltanto nella sua generosità e nella sua eccentricità briosa, ma anche nelle sue contraddizioni, a volte perfino nelle sue perfidie, senza le quali forse non sarebbe divenuta «la maggiore scrittrice italiana di ogni tempo» ( risvolto di copertina).

E per conferire alla narrazione un ritmo efficace e una decifrabilità immediata – consoni, per paradosso, alla complessità della Morante –, Bubba riempie il tessuto narrativo di dialoghi incalzanti, mai pletorici, all’interno di una prosa vivace sebbene malinconica in cui dominano la comunicatività della paratassi, la delicatezza delle metafore inattese, la preziosità di un lessico ricercato.