Eppure felici, ecco come ci crediamo – Vanni Schiavoni

a cura di Mario Famularo

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Non spiega molto dei nodi marinari
l’avvicendarsi dei tramonti a largo di Split
quando il sole si piega all’orizzonte tenendosi per le dita
senza dare punti di decisione.

Tutto si specchia come in un contagio
a cominciare dal mio cognome
per finire col tuo profilo, nonostante sia spaesante
la sbilanciata conoscenza dei fatti.

Non c’è la violenza che speravo
o qualcosa che chiamiamo per abitudine straniero.

Eppure felici
ecco come ci crediamo: felici di netto
in questo plagio impreciso e continuo degli sguardi
capaci da qui a richiamare l’umanità intera
all’issarsi di reti e della tradizione
che mi indichi di tanto e ogni volta è niente.

L’aria sul muro di cinta rifrange
i flutti di vita sul lato dei pianti.

(Vanni Schiavoni, “Quaderno croato”, Fallone Editore, 2020)

“Quaderno croato”, di Vanni Schiavoni, è una plaquette che ritrasmette, in primo luogo, il sapore di un diario di viaggio – dove lo scavo da geografico si fa introspettivo, semantico, linguistico, relazionale: “a cominciare dal mio cognome”, punto di contatto tra la ragione del percorso e i luoghi di indagine, occasione di contatto con un’identità e una tradizione apparentemente lontane.

Il testo selezionato raccoglie molte delle caratteristiche della breve silloge, di dodici poesie – dove ciascuna si ricollega a una tappa esatta del cammino – in questo caso si tratta di Spalato, o meglio “Split” (l’avvicendarsi dei nomi nelle due lingue è uno degli elementi che realizza l’integrarsi – attraverso la parola e i luoghi – all’ignoto dell’origine).

Immediatamente il dettato chiarisce che “l’avvicendarsi dei tramonti … non spiega molto … quando il sole si piega all’orizzonte … senza dare punti di decisione”: non è il luogo, dunque, a dare una risposta sufficiente, ed è questo a giustificare ed alimentare il viaggio, la ricerca; ma è lo stesso luogo circostante (in particolare qui l’ambientazione appare nautica, trovandosi l’io del testo “a largo di Split”) a specchiarsi attraverso le acque marine, in ogni suo dettaglio, passando attraverso la riprova della propria identità e del collegamento con il passato e la tradizione, fino alla conferma del presente (“Tutto si specchia come in un contagio / a cominciare dal mio cognome / per finire col tuo profilo”), anche se la rivelazione resta parziale ed incompleta, “sbilanciata” – e quindi non può che spingere a proseguire, a non interrompere la dinamica del navigare necesse est.

La realtà sorprende per la sua differenza con le possibilità e le aspettative: “non c’è la violenza che speravo / o qualcosa che chiamiamo per abitudine straniero” afferma l’io lirico, come a dire che la familiarità con il mondo ed i paesaggi, e la forza pacificante e serena del procedimento, risultano inaspettate e differenti da quelle che si erano consolidate come “speranze” nel suo immaginario.
“Eppure felici / ecco come ci crediamo: felici di netto”, ritrovandosi in un moltiplicarsi interminabile di sguardi, “capaci da qui a richiamare l’umanità intera” (in un’istanza che da viaggio personale si fa universale e di ogni uomo), tra il ricordo di un passato “di reti e della tradizione”, che, pur indicato e studiato, “ogni volta è niente”, nel suo dissolversi continuo nel momento presente.

Quella che più forte si avverte, negli ultimi versi, è una compenetrazione tra la natura, la città, il mare, e l’uomo, che attraverso il dolore e la coscienza della sofferenza riesce a realizzare un punto di contatto con il passato, con i propri simili e con il mondo: una quasi serenità che nasce dalla certezza dell’afflizione – “flutti di vita sul lato dei pianti” – che si scontrano e disperdono contro il muro di cinta della città delle origini, al contempo accogliente e quasi indifferente.

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