Approfondimenti
Ero brava ed ero bastarda
Nel mìle y novecento novanta sei – avevo diciasèti àni – facevo la balerìna ni un locàli de Cracovia. Insiemi ad altri due ragàze più vechie di qualchi àno, tuti le sere, su la mea Polski 125 celeste comi il cielo, traversavàmo la Kopernika fino in fondo. Dà la Mikolajska fino à la Lubicz, acanto à la linea dei filo bus. Si parchegiàva di dietro aìl grandi cinema multisala, si cèndeva una sigarèta. Entravamo una dopo l’altra, da la grandi porta di vetro scuro, dietro la tenda. E iniziava così, dal frèdo aìl caldo, dalo scuro al chiaro de la sala, la nostra serata.
La poisìa era per me, a l’epoca, qualcosa solo di studiato sui libri dele scuole superiori. Poisìa erano i versi dei tradizionali poeti Mickiewicz, Tuwmin, e Slowacki; poisìa era quèla de l’artista deportato Josef Bau. La sua storia, da Płaszów fino al trasferimento a Schindler. Poisìa erano i romantici tedeschi. Poisìa erano Shelley Wordsworth e Keats. Apollinaire, Villon. Linee di inchiostro e stampe, libri, ogètti, vite lontane. Poisìe erano le pippe mentali solitarie de li uomini; poisìe erano i deliri di amòri solitari de le donne. C’era una speci di alterità tra la poisìa e il mondo, comi posso dire? Tra quèlo che legèvo e quèlo che vedevo.
Comi si la genti che scriveva non era la stèsa chi potevo incontrare dal panitière. Comi se la povertà vista al telegiornali era una cosa, mentri quèla per strada, dovi la genti chiedi l’elemosina, era un’altra. Comi se, per ogni persona o situazione, ce n’era una racontàta per voce o per scrìto – e una, invece, chi si poteva tocàre.
Quando io andavo a lavoro su la mia 125 celesti, ero Svetlana reale. Svetlana nel mio ruolo di figlia, con i miei diciasèti àni, con i miei problemi, con due oche sedute in machina – i loro capèli biondi visti da lo spechièto retrovisore. Ero Svetlana chi balàva, Svetlana chi tornava a casa ale quàtro di matina con il maglione. Ero Svetlana che pogiàva le scarpi a l’ingresso, nel buio de la casa, senza fari rumore.
Improvisamenti poi, qualcosa era cambiato. Nel giro di pochi mesi io mi sentivo sempri più dentro à quel racònto e iniziavo a vedere, da l’interno, un magiòri numero di cose. Vedevo le facie de i clienti del locale, tra lo scuro e la luce: come somiliavano à la facia de la disperazione di un tranche de vie invernale per le strade di Parigi a fine novembri. Vedevo i mariti di meza Cracovia seduti a bere whisky sui segiolìni rossi, ne la loro infelice condizione familiare così simile al rosso de la luna quando si alza su le strade deserte de Kozlòw. Iniziavo ad acorgermi di tanti sfumature che prima nol mi rendevo conto. Mi sembrava, lentamente, chi la poesia entrava potente dentro la vita – o al contrario – che la vita asumèva una forma literaria. Come si le due linee de il filobùs – chi prima erano paralèle, venivano improvisamenti ad unirsi in una sola
Ricordo chi una sera, tornando à casa con la Polski, avevo pensato chi non sapevo davèro più chi ero io. Me veniva in mente tùto e il contrario di tùto. Ero brava ed ero bastarda. Ero gentile ed ero stronza. Butavo il meo moziconi fuori dal finestrino e suonavo il clacson con il gomito. La nòte se apriva à le mie spàle. La polizia me fermava per guida pericolosa.
Ora che io sono qui a scrivere, ad àni di distanza, quèlo che cambiava à l’epoca ne la mia vita, me sento veramenti una colìona. Me ritornano in mente le parole di Zia Ana Petrova chi disse “Svetlana, io credo chi un giorno tu sarai una grandi scritrìce, più grandi di tanti uomini”. E il fàto che io, ad un certo punto, per fino ce avevo creduto. Chi avevo iniziato a scrivi tante poesia su la mia vita. Me vieni in mente quando rimanevo in casa per scrivere invece di uscire a bere con lì amici: un modo – credo, a posteriori, per aferrare de le cose, e perderne altre. Che mi sveliàvo nel cuori de la nòte perfino – per metere su carta il mio pensiero. Mi svelìavo, e mi trovavo davanti la gigantografia di Gadlèrner à la tilevisione. Gadlèrner di profilo soridente e storto. Come la mia vita, storta e soridènte. Ma di quel sorìso che è molto sottilmente vicino a la presa pir il culo.
Svetlana, dove vai? Svetlana, cosa vuoi fare? – Mi diceva una parte de la coscienza. Vivere o lasciare che la vita ti mangi? E’ comi si le due famose linee del filobus se erano no unite, ma scontrate: e la fruta* era uscita dale buste de la spesa, rotolata fuori su tutte le rotaie e i sassi de Cracovia.
[*comi un treno carico di frùti eravamo à la stazione si ma dormivamo tùti e la mia banda suona il rock]
La fruta rotolava e si mischiava: vero e finto. Ma di questo ho già parlato quèla volta, a proposito dei capèli di Carmelo Bene: di come il vero e il finto siano dificili da riconoscere.
Qui non era solo vero e finto: era vita e naraziòne. Ma anchi di questo ho già parlato, quando ho scrito La poisìa e i dòlari. Tuto sommàto oggi, ad esere sinceri, non ho una sega da dire.
Svetlana Petrova.
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