Gesualdo Bufalino. Nel silenzio della voce

a cura di Davide Zizza

[Riflessioni intorno alla raccolta L’amaro miele]
 

“L’ho sentito dire, o l’ho letto da qualche parte: il mare colore del vino”
Leonardo Sciascia

La poesia instaura uno spazio indefinito in cui ritroviamo la parte più sotterranea dello scrittore in cui il lettore può rispecchiarsi. La poesia insedia la sua tenda – abitazione del senso e dell’anima – ricordandoci che ogni verso è una festa del significato, e può costituire per il nostro orecchio interno una risonanza sempre diversa. L’ascolto permette l’accoglimento della parola, questa si lascia cadere nell’introspettiva del lettore creando una kenosi, uno svuotamento, uno spogliamento che riempirà le parole di un senso nuovo. Nella poesia troviamo quindi l’ospitalità, troviamo l’accoglienza.
Nella scrittura di Gesualdo Bufalino la poesia si realizza – per usare un ossimoro, formula stilistica a lui cara – come silenzio di voce, drammatica e autentica testimone del tempo contenitore di accadimenti esterni e interiori: poesia-fregio, affresco baroccheggiante di personale malinconia. Prescindendo dal successo tardivo – in quanto esordiente in età avanzata – per il noto romanzo Diceria dell’untore, il caso Bufalino inizia prima e poeticamente proprio con L’amaro miele. Questa raccolta di versi pubblicata nel 1982 (accresciuta e ripubblicata nell’89) da Einaudi – anno in cui l’editore pubblica i versi di Attilio Zanichelli, Una cosa sublime – viene considerata il controcanto poetico a Diceria dove confluiscono le esperienze del sanatorio, la guarigione e il ritorno a Comiso ad una vita discreta e ritirata. Del romanzo possiamo cogliere un’ossatura progettuale intorno al ’50, ma per l’opera poetica riusciamo a identificare con precisione il periodo di cui l’autore ci informa, “[…] fra il ’44 e il ’54. Poi fra il grido e il silenzio non fu difficile scegliere”.
L’amaro miele innalza un’architettura letteraria in cui memorie, attimi e stati d’animo vengono descritti ad arte, scavando nelle ellissi, nelle antitesi, nelle collisioni verbali. Non sono i grandi interrogativi dell’uomo a prevalere ex-abrupto, sono i fatti quotidiani a far scaturire le questioni più interne e universali. La raccolta non è però solo memoria, tranches de vie o affondamenti nei ricordi; nonostante da una parte L’amaro miele sia un diario in cui ascoltiamo l’eco della guerra (“Amici sui monti, vi ricordate di me?” ), del nemico ignoto al quale dedica un Requiem (“Crivellato di buchi neri,/leutnant Rudof Enne Enne,/in questa stanza del malanno/ti faccio posto volentieri”), della sua Sicilia in Compianto dopo la guerra (“Chi dunque ruppe gli spalti felici/dove ieri venni con fiato di vento?”) e della sua malattia, rendicontata in ogni piega della parola (“Rinasco all’alba mordendomi il pugno”), dall’altra i suoi versi abbozzano sentieri, profili, figure e descrizioni ut pictura per parlare d’altro.
Si dipana per tutta la raccolta una nitida e disincantata riflessione sulla morte, non come fatto luttuoso in sé, ma come invisibile compagna di ogni attimo; essa è per Bufalino una forma di pensiero, un modus philosophandi che non è il contrario della vita, ma ne completa persino il senso. Ne La sosta il poeta si interroga “Con un gelato davanti/e la morte dentro la mente,/seduto a un bar di Piazza Marina” e si chiede la ragione per cui vive o cos’altro l’aspetta dietro l’angolo. La morte accompagna la vita, non il contrario, perché fanno parte di uno stesso percorso e dove c’è l’una c’è l’altra. In questa visione la vita prende in Allegoria il simbolo di una partita su un’ “usata scacchiera […] dove il sangue s’inerpica a squillare”.
Affrontando l’argomento della fede, Bufalino non fa mistero di essere ateo; il suo ateismo rimane tuttavia fedele a quella ricerca del Dio che non viene trovato o che non si fa trovare. È una voce dal deserto in Versi scritti sul muro dove “Più ti sento lontano, più Ti sento addosso”; eppure in Altri versi scritti sul muro affermando “Dunque è vano, Signore, assomigliarti/nel nome, nella sorte, nella morte […]” Gesualdo chiede “Dolce Signore, perché ci abbandoni? /Anche a noi Tu devi […] una resurrezione”. Se sul destino umano non porrà questioni di contrappunto in Consenso dopo la pioggia (“Sia come vuoi, Tu che mi spii.”), respingendo l’inconfutabilità della fede nel suo Sine titulo alla fine ammetterà: “Dalla Tua rada barba semita/Ti riconoscerò”.
La figura dell’angelo non sfugge alla sua fionda e la riveste di metafore legate alla perdita della persona amata (“L’angelo cieco ha gridato/ sulla tua fronte acerba” nei Congedi), all’“angelo ladro” con il quale lotterà sino alla morte, per giungere in Dies illa in cui “Soffierà nel suo corno da minatore/l’angelo prima del rombo.”
La poetica de L’amaro miele è poetica di osservazione, di fragile e pur tenace introspettiva. L’umiltà della parola si declina nel tentativo di trovare usi figurati idonei a comunicare le esperienze passate: il suo manierismo barocco (“nel mio caso parlerei di barocco borrominiano” affermò egli stesso) diventa in tale prospettiva impianto ludico-descrittivo, e di conseguenza non è l’immagine a sostituire o a far dimenticare il lavorio nascosto dietro le parole, ma il contrario, sono le parole a sostituire tramite la loro preziosità mai artificiosa l’immagine.
Bufalino possiede una scrittura personale, disinvolta e raffinata, dalla quale traspare la sua cultura classica, la frequentazione delle sue letture, spesso in lingua originale come i Fleurs baudelairiani. Esistono autori e opere che fanno parte di un retroterra culturale immancabile e non si possono archiviare in una mansarda della mente e lasciarle impolverare. Bufalino è il fruscio di un disco ai tempi di Charles Trenet, ritmo sincopato di jazz, una cartolina ingiallita col francobollo brunito, è un libro nel cui centro peschiamo i petali secchi di una rosa ritrovata dopo anni.