Interviste
Ho ascoltato il silenzio
Conversazione sull’arte e sulla vita con Mariangela Gualtieri
a cura di Pier Angelo Cantù
Leggevo, amavo, danzavo. Correvo, rimuginavo, scrivevo. Quando non morivo.
Soprattutto parlavo. Disseminavo l’esistenza di parole pronunciate, pensate, sfuggite. Consegnavo loro una vita propria, le lanciavo cercando un intreccio. Avrei ottenuto nuovi intrecci, oppure silenzi. Mi è sembrato questo il significato profondo dell’ultima raccolta di poesie di Mariangela Gualtieri. Una nuova danza della forma poetica, un’esperienza di vertigine che ci tocca, ci attraversa e che, tuttavia, sentiamo di non riuscire ad afferrare del tutto.
Viviamo giorni in cui abbiamo polarizzato l’attenzione su poche espressioni di sopravvivenza, come non accadeva da decenni. La salute, il destino dell’economia, il perdere qualcosa e il (pretendere di) riavere indietro qualcos’altro. Siamo immersi in un vociare continuo che avvicina e allontana la gente più delle norme che si avvicendano definendo con quante (poche) persone potremo sostare e chi sono i congiunti con cui parlare, ascoltare, vivere.
Sentiamo però il bisogno di traiettorie più ampie, capaci di riportarci all’essenza dell’essere, lontani dal frastuono. Cerchiamo parole con cui avvicinare generazioni e distanze, squadernare sentimenti che sentiamo forti ma che non possiamo quasi pronunciare.
Passare dal singolare al plurale è la nuova rivoluzione, e “siamo” è la parola che le unisce tutte, anche nell’ultimo libro di Gualtieri. Siamo qui, siamo noi, ci siamo scelti. La prima persona plurale viene a salvare, se siamo ancora capaci di lasciarci salvare.
Non è stato semplice intervistare Mariangela Gualtieri: elaborare domande per suscitare risposte, rimaste sospese per un tempo lungo. Svuotare l’attesa di significati per fare spazio a un silenzio che abbiamo compreso, infine, contingente, educato ed educante.
Sono grato alle persone che mi hanno aiutato in questa piccola impresa (si riconosceranno leggendo queste righe); anime belle accomunate nell’universo del non dicibile e del riconoscersi, ad esempio, nelle parole che fin dal primo momento Gualtieri ha scelto per farsi da verbo a carne poetica.
“Parlami che / Io ascolto parlami che / Mi metto seduta e ascolto / Metto una mano sull’altra” (ANTENATA, Crocetti Editore, 1992): un’invocazione che racchiude il senso primigenio del fare poesia, il sentire che viene alla luce dal silenzio, lo attraversa e si fa parola. In questo momento della storia, però, il silenzio sembra essere inghiottito dall’incessante frastuono del mondo. Con esso, la capacità di intuire il mondo e le parole per raccontarlo. Un veleno per la meraviglia. Quale può essere l’antidoto?
Non ho risposte, purtroppo, o forse ognuno è chiamato a trovare una risposta propria. Sono preoccupata dal frastuono del mondo, preoccupata soprattutto da quanto questo frastuono possa disturbare le nuove vocazioni, poetiche, artistiche, filosofiche. Abitiamo un mondo che quasi ci impedisce di essere contemplativi e siamo sempre dentro una corsa fragorosa. Ma senza contemplatività io credo non possa esserci né arte, né poesia, né filosofia. E anche la scienza ha bisogno di vuoto, di attesa, di osservazione ispirata. Sarà compito di ognuno strappare al frastuono una bolla di terra silenziosa e feconda nella quale raccogliersi e mettersi in ozio, in ascolto. E sarà compito di ogni adulto creare e proteggere questa bolla sospesa per ogni bambino, per ogni ragazzo. Come ci si educa ai sentimenti, così chi educa dovrà avere cura di creare spazi contemplativi, spazi vuoti, pause, lacune, sospensioni, lentezze.
Nelle sue poesie mi pare che le parole e le immagini evocate abbiano una veste di levità, sebbene affondino nei misteri più profondi dell’essere umano. Quando poi questi stessi versi vengono letti da lei sul palco, assumono una consistenza fisica, viscerale, attraverso la sua voce. Trovo sia una caratteristica originale della sua poesia.
In che modo il suo essere attrice, drammaturga, dunque artista che agisce anche con il corpo, incide nel processo di composizione poetica?
Il mio lavoro in teatro con Cesare Ronconi e insieme a lui con bravi fonici e con attori e attrici che subito davano voce ai miei versi, è stato decisivo. Sono partita con una scrittura in versi piuttosto criptica e nel corso degli anni c’è sicuramente stato un cambiamento, mi sono mossa verso una maggiore semplicità o meglio, secondo le parole di Borges, sono arrivata ad una modesta e segreta complessità. I trenta e più anni di teatro mi hanno sempre più spinta ad abbassare la lingua e a cercare con urgenza di arrivare al cuore dello spettatore, deponendo la mia vanità. L’esercizio dell’oralità è poi diventato addirittura quello che potrei chiamare la mia coscienza poetica. Se un verso non regge l’oralità, se sento che le parole cadono ai miei piedi e non hanno una forza di gittata fonica, di solito le tolgo. Anche il lavoro con gli attori e attrici, la scrittura fatta durante le prove, la possibilità di sentire un testo recitato quasi un momento dopo averlo scritto, tutto questo è stato per me di grande stimolo e insegnamento.
Nei suoi componimenti si evidenzia “un respiro corale”, citando un suo verso: ogni essere umano è il filo di un grande arazzo che tiene tutti uniti, grande importanza viene data a questo legame nella sua poesia. Nel recente libro “Quando non morivo” lei dedica una sezione all’intreccio tra l’essere umano con gli animali e “il niente che viene”.
Qual è stato il percorso di donna, poetessa, attrice che l’ha portata ad ampliare in modo così straordinario questo “respiro corale”?
Credo che su questo argomento si intreccino vari percorsi. Primo forse la mia larga religiosità, una religiosità senza Dèi, forse panica, forse vicina a ciò che liquidiamo di solito col termine ‘animismo’ e che in realtà segnala un sentire che tutto è vivo, e tutto fa parte di un unico generale, cosmico concerto. Poi c’è la terra in cui sono nata, la Romagna, col suo ricco e fecondo dialetto. C’era e forse c’è ancora uno spirito romagnolo fortemente abbracciante, fortemente ospitale, e questa larga ospitalità che in me ha finito per includere ogni vivente, ogni pezzo di mondo, viene forse anche da qui. E poi i tanti anni di vita in una compagnia teatrale che a tratti e puntualmente si apre e si fa comunità di incontro fra vari artisti, fra artisti e giovani apprendisti, fra interpreti e pubblico, in una larga umanità che si ritrova e si allena ad uno stare insieme intenso, mettendo in comune ognuno il meglio di sé. E da ultimo la mia vita in campagna. Da venti anni ho lasciato la città e qui in campagna, così dentro il paesaggio e dentro la terra, si attua ogni giorno un insegnamento segreto che viene dalle piante, dai fiori, dagli animali, dal vento, dalla luce… Qualcosa ficca le mani in me, e in profondità mi lavora, quasi fossi anche io il campo, o la foresta.
Nelle sue poesie si avverte un legame potente tra ciò che è sempre esistito e ciò che verrà, la consapevolezza di un comune destino di specie raccontato da un “Io” universale che abbraccia tutto e tutti: l’essere umano, il cielo, il pane, i sassi. “L’amore è il tuo destino” svela in “Bambina mia”.
Cosa manca ancora alla nostra confusa razza umana per abbandonarsi a questa magnifica rivelazione?
L’umano è miracolosamente bello – che è anche orrendo lo sappiamo già, ne veniamo informati quotidianamente dai notiziari. L’umano ha intrapreso una strada incredibile e quasi indicibile, dall’animale che era e che è ancora, si sta incamminando verso su, in una ascesi che indubbiamente ha del miracoloso. Siamo una specie appena formata, appena nata e siamo in cammino, non siamo creature ultimate. La scienza ci insegna che una specie per compiersi, per sviluppare le proprie peculiarità, ha bisogno in media di 5 milioni di anni. Noi abbiamo duecentomila anni e siamo quindi all’inizio del nostro cammino. L’aggressività inevitabile che ci ha portati ad essere creature dominanti ora non serve più. Grazie alla scienza e alla tecnica potremmo vivere pacificamente, quasi felicemente. Ma, come sappiamo bene, ci sono enormi sperequazioni. Quando guarderemo chi è esageratamente ricco come si guarda un malato grave, affetto da una preoccupante patologia di potere e di accumulo, quando saremo abbastanza saggi da vedere la meraviglia del nostro pianeta e cominceremo le nostre giornate ringraziando, quando rispetteremo ogni forma di vita perché ne saremo incantati e innamorati, quando ognuno potrà arrivare ad esprimere in pienezza i propri talenti, il proprio spirito, facendo un lavoro degno e appropriato, ecco, allora qualcosa comincerà naturalmente a cambiare. Se arriveremo a questo prima di auto-distruggerci, allora saremo davvero nel paradiso terrestre.
Durante la prima fase del Coronavirus lei ha compiuto un’operazione rischiosa, cioè scrivere una poesia sul tema (“Nove Marzo Duemilaventi”). Parole che sono diventate rapidamente virali e sono state subito tradotte in molte lingue.
Solo una figura autorevole poteva permettersi di farlo evitando il rischio di banalizzare contenuto e “voce”. Eppure, il testo e il contenuto sono di una semplicità disarmante, quasi una sfida alla distanza tra poeta e lettore.
Come sono ora i suoi sentimenti rispetto a questa poesia?
Quel testo è nato in un grande generale vuoto di parole. Nessuno osava appunto correre il rischio di mettere lì delle parole in soccorso all’angoscia generale. Ho sentito che mio compito, compito di una poeta era tentare, anche rischiando di essere irrisa o demolita – come del resto qualcuno ha cercato di fare, anche se c’è stato un commovente e gigantesco grazie che mi è ritornato da migliaia di persone, da tutto il mondo.
Può darsi che quel testo in qualche modo invecchi perché è strettamente legato a questo presente, mentre la poesia è parola che non si consuma e attraversa il tempo restando intatta. Può darsi che scopriamo che non era buona poesia – è il tempo spazzino a sputare via ciò che non ha valore duraturo. Ma questo testo ha fatto e sta ancora facendo un suo buon lavoro. Ha detto con cura e precisione qualcosa che riguarda questo tempo straordinario e ammutolito. Ha dato parola a molti che in queste parole si sono riconosciuti. Ha placato in alcuni l’angoscia. In qualche modo ha affratellato, lo dico vedendo quanti gruppi scolastici e non si sono messi insieme per recitarne ognuno un pezzetto, bambini, adolescenti, anziani, amici…
Dunque provo un sentimento di gratitudine per la sincera forza ispirante che me lo ha fatto scrivere proprio così come oggi lo leggiamo. Provo la dolce sensazione di avere fatto bene il compito che mi spettava. E anche di questo ringrazio.
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Annotiamo, in ordine sparso, alcune cose che ci sembrano affiorare nelle risposte di Mariangela Gualtieri alle nostre domande.
Innanzitutto, il desiderio e la volontà di tenere insieme l’azione, la consistenza fisica con la levità. Anche quando si cala nella realtà, per esempio con la poesia sul Covid-19, Gualtieri si mette dentro con tutta la sua persona e per questo sceglie parole che reggano l’oralità; quest’ultima appare anche come potente metafora del corpo e della sua finitezza, della contingenza.
Un atto consapevole che mai, però, perde di vista l’unione profonda tra la corporeità tutta e la delicatezza, la grazia, la levità che sono le forme con cui Gualtieri si esprime, poiché animata da una profonda compassione per i limiti dell’uomo, un essere ancora giovane, che sta maturando. Quindi sembra scegliere questa forma di espressione per arrivare piano prima tra le dita e poi più dentro al lettore.
Pur tra parole spesso imprendibili, Gualtieri predilige sempre la pacatezza per esprimere anche i contorni più profondi e fatti di carne, forse perché per lei (anche attrice viscerale) è questo il vestito più adatto a esprimere ciò che sta oltre la fisicità e ci unisce tutti.
Nelle sue poesie, la materia che tocchiamo rimanda a un’unione tra tutti gli esseri viventi, perché mortali (anche al di fuori dalle guerre, come vediamo drammaticamente in questi giorni); e poi a un’unione tra tutti gli uomini e le donne perché hanno l’amore come destino: per andare oltre, ossia per cogliere questo legame, si deve partire dai sensi, dalla consistenza.
Una fisionomia artistica che ricorda molto Maria Lai che usava le mani, la materia, con la stessa delicatezza e compassione, mossa dalla convinzione di un legame radicato tra tutti gli esseri viventi. Per sfiorarlo è necessario partire dalla semplicità di ciò che sentiamo e tocchiamo. Nelle opere di Lai, così come nelle poesie di Gualtieri, osserviamo la materia che diventa lieve, generando un potente equilibrio tra delicatezza e corporeità.
Infine, il vuoto amico, la connessione con il tutto, la bellezza dell’essere umano.
Troviamo in questi concetti luccicanti una posizione rivoluzionaria, quasi eretica se consideriamo il nostro tempo, soprattutto per quanto riguarda la concezione dell’uomo nel pensiero e nella percezione comune. La necessità di attingere al vuoto come materia feconda che produce la parola, quindi una parola meditata, contemplata, valutata in base alla sua “gittata fonica” (che immagine meravigliosa!) prima di essere detta, è un prerequisito fondamentale della poesia di Gualtieri, che è anche un modo di stare al mondo. Anzi, il modo di stare al mondo, che rischia di venire a mancare ora anche attraverso la forza di nuove opere d’arte in tutte le loro espressioni, dal cinema, alla musica, per non parlare della letteratura e del teatro. Per dare uno spazio alle persone ancora assetate di bellezza e per lasciare una memoria alle generazioni future. E anche questo è un lavoro encomiabile portato avanti dalla Gualtieri col Teatro Valdoca: creare uno spazio sacro in grado di portare un testo dal suo concepimento, alla sua elaborazione, alla messa in scena. Il verbo che si fa carne
Nel recupero di questo spazio sacro non c’è più distinzione tra poesia e vita, sono entrambe la stessa cosa. L’arte, quindi, non più come una cosa elitaria, a margine o in alto rispetto alla vita, ma parte del tutto, preghiera laica che unisce e apre in un mondo che ci vuole chiusi, isolati, distanti. La contemplazione del lato bello nell’essere umano è l’aspetto più commovente, la fiducia nell’ascesa di una specie all’inizio del suo cammino, in un momento in cui il mondo si sente, invece, alla fine, rimette tutto in discussione e dona nuova luce allo sguardo attraverso cui conosciamo e giudichiamo noi stessi e i nostri simili (“l’umano è miracolosamente bello”).
Ecco, questi tre aspetti (necessità del vuoto, interconnessione, riscoperta dell’umano) che si articolano secondo logiche originali (la parola che viene dal silenzio, fare spazio per accogliere) ci sembrano le colonne portanti di una poesia che si presta a ispirare il progetto di un nuovo umanesimo.
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Mariangela Gualtieri è nata a Cesena, in Romagna. Si è laureata in architettura allo IUAV di Venezia. Nel 1983 ha fondato, insieme al regista Cesare Ronconi, il Teatro Valdoca, di cui è drammaturga. Fin dall’inizio ha curato la consegna orale della poesia, dedicando piena attenzione all’apparato di amplificazione della voce e al sodalizio fra verso poetico e musica dal vivo.
Fra i testi pubblicati: Antenata (Crocetti ed., 1992 e 2020), Fuoco Centrale (Einaudi, 2003), Senza polvere senza peso (Einaudi, 2006), Sermone ai cuccioli della mia specie (L’arboreto Editore, 2006), Paesaggio con fratello rotto (libro e DVD, Luca Sossella Editore, 2007), Bestia di gioia (Einaudi, 2010), Caino, (Einaudi, 2011), Sermone ai cuccioli della mia specie con CD audio (Valdoca ed. 2012), A Seneghe. Mariangela Gualtieri/Guido Guidi (Perda Sonadora Imprentas, 2012), Le giovani parole (Einaudi, 2015), Voci di tenebra azzurra (Stampa 2009 ed., 2016), Beast of Joy. Selected poems (Chelsea Editions, New York, 2018, tr. A. Molino and C. Viti), coautrice – con Cesare Ronconi e Lorella Barlaam – dell’Album dei Giuramenti/Tavole dei Giuramenti (Quodlibet, 2019) di Teatro Valdoca, Quando non morivo (Einaudi, 2019).
Le foto di Mariangela Gualtieri nell’articolo sono di ©Melina Mulas
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