Il gioco di unire writer e song

Prendi il termine songwriter e lascia vagare la mente per un po’.
Pensaci bene: non è facilmente traducibile nella nostra lingua. Non senza perdere pezzi di significato. E’ formato da due parole chiare, precise. Due lemmi con cui ha dimestichezza perfino chi parla inglese in modo sommario. Qualcuno le utilizza in originale, senza timore di confonderle, scrivendo articoli nella nostra lingua. Song, perlomeno; writer, chissà per quale ragione, ha preso un’altra strada. Quando la leggi o la senti pronunciare, pensi a quegli artisti (o incivili imbrattatori) che, furtivamente, lasciano le loro ingombranti scritte sui muri o sui vagoni di treni e tram. Ma una volta riunite, vanno fuori fuoco.
Cantautore? Non rende. La storia e il proliferare della categoria ne hanno inaridito l’aspetto strettamente musicale. Inoltre, si fatica ad archiviare la figura dell’intellettuale politicizzato con la chitarra che si è radicata negli anni Settanta.
Cantastorie? Un’immagine romantica (che i blogger non avranno mai), ma non ci siamo. Cuntastorie? Troppo geografica.
Contastorie? Ha assunto un alone millantatorio, forse per gli antichi legami con la ballata di strada, che di balle ne contavano parecchie.
Se dovessimo procedere sul sentiero già tracciato, ci ritroveremmo presto in un tunnel decorato da un’abbondante quantità di cliché. Non ci interessa però, non qui, disquisire se e come riconoscere una qualche valenza letteraria a una canzone pop o rock. Si è già detto molto, e ancora non tutto. Si finirebbe per disoggettivare quel confine, fortunatamente invisibile, che colloca un testo nel lato nobile, escludendone un altro. O per personalizzare a priori la dignità in base all’autore, con alcuni che si sono guadagnati sul campo la a maiuscola, mentre altri no. E comunque, mancherebbe l’aspetto musicale. D’interessante, infatti, rimarrebbe qualche ulteriore indagine sull’ineffabile legame fra musica e liriche, sulle alchimie che ne regolano la peculiare magia. Sempre che non siate fermamente convinti che i testi di “La Donna Cannone” o di “Just Like a Woman” funzionino anche sulla melodia di “Bella Ciao”.
Noi imbocchiamo un sentiero deviato, ludico, esplorando se ci sia mai capitato, mentre stiamo leggendo un testo di valore (un racconto, una poesia, non un articolo di Travaglio), di trovarci immediatamente risucchiati nell’immaginario di una canzone, in assoluta libera connessione. Magari imprevedibile, assurda, demenziale. Con la serietà del gioco che, se ci credi fino in fondo, può portarti in luoghi inesplorati. E col gusto di servirsene senza l’uso della logica, senza rapporto causa effetto, sentendo tuttavia le connessioni addosso. Per poi dimenticarle e ricominciare il gioco.

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Ad esempio, sto leggendo Carver e nella mia mente non parte una canzone di Chuck E. Weiss, ma quel brano dei Weather Report. Perché? Ok, magari un’ora prima ascoltavo il notiziario di Popolare Network e mi è rimasta sottopelle la sigla, ma non è di questo che stiamo parlando. Parliamo di quando e di come la parola scritta, funzionando in un certo modo nel nostro immaginario, ci spinge tra le braccia di una canzone.
Chiediamo conto a (la chiameremo) Gabriella, che legge “Alla memoria di Knulp”.
Non esser triste, presto sarà notte,
e sul paese pallido vedremo
fresca la luna sorridere furtiva
e poseremo mano nella mano.
Non esser triste, presto verrà il tempo
che avremo pace. Le nostri croci stanno
a due sul margine lucente della via,
e piove e nevica
e il vento viene e va.

Scopriamo come la nostra amica, partendo dalla lettura dei versi di Hermann Hesse arrivi sempre all’incedere gonfio, ridondante e sintetico di “Now We Are Free” di Lisa Gerrard, Non è meraviglioso? Una concatenazione di parole dimesse, un inno alla caducità, un vagabondare onirico fra corpo e spirito, associate alla colonna sonora del “Gladiatore”?

Leggo “Dear, My Compass” e improvvisamente i ruoli si invertono (la chiameremo Elena): il testo della Bishop diventa la risposta di un uomo alla lettera di una donna (in questo caso la parte iniziale di “The Ship Song” di Nick Cave): Come sail your ships around me, And burn your bridges down. We make a little history baby, Every time you come around… (due note a margine. La prima: mi ha sempre colpito l’uso della parola history in questo pezzo, in luogo di story, perché affida alla singola vicenda amorosa un significato universale, ripetitivo, prospettico, staccandola dal contingente. La seconda: un giorno scriverò qualcosa sull’uso dell’intercalare baby, piccola, nell’intera discografia di Cave).
Anyway, di seguito il testo originale della poesia di Elizabeth Bishop, giusto per rendere immediatamente fruibile la libera connessione di Elena:
Dear, my compass still points north to wooden houses and blue eyes, fairy-tales where flaxen-headed younger sons bring home the goose, love in hay-lofts, Protestants, and heavy drinkers… Springs are backward but crab-apples ripen to rubies, cranberries to drops of blood, and swans can paddle icy water, so hot the blood in those webbed feet. Cold as it is, we’d go to bed, dear early but never to keep warm.
Lei vuole essere il suo porto di approdo, la sua destinazione. La sua Itaca. Lui non può fermarsi, vuole continuare il suo viaggio. Ubbidisce soltanto alla sua bussola che lo spinge verso Nord.

(La chiameremo) Cristiana, confida che – sarà banale e ovvio – ma quando legge o sente parlare di “Cime Tempestose” il pensiero corre immediatamente a Kate Bush. Il pezzo che le viene in mente, però, non è “Wuthering Heights” ma “Babooshka”, soprattutto la sua introduzione.
Tutte donne? Sì, tutte donne. Nessuno, comunque, ci vieta di estendere il concetto ai significati del “maschile” e del “femminile” junghiano, superando di slancio qualsiasi dicotomia e stroncando sul nascere eventuali polemiche di genere. E’ comunque statisticamente provato che sono le donne (le femmine) a leggere di più.
È un riverberar di luce e visioni. Mi capita sempre quando ascolto “My Homeland” di Annabel (lee) con il suo testo di Kayla Lamar. Beauty of religion is within you and the melting of snow in my heart (la chiameremo Mariapia).
Qualsiasi cosa leggo che mi fa sentire addosso l’umidità e il profumo dei monsoni, mi porta a “Tropical Disease” degli Air (la chiameremo Sara).
Non è un gioco interessante? O vogliamo tornare a disquisire su chi abbia sdoganato per primo la poesia nella musica rock (prima di Jim Morrison)?
“Fasti” di Jacques Prevert infiamma la libera fantasia di Gemma (la chiameremo così. Sì, tutte donne). Ho sempre immaginato, non so perché, che Prevert avesse una voce simile a quella di Greg Dulli: mai troppo nera né troppo celeste. Qualcosa che sta nel limbo dei colori, dove tutto è ancora in gioco, in fase di miscelanza, dove niente è ancora definitivo. La canzone è “Black is The Colour of My True Love’s Hair” dei Twilight Singers.
E nulla è di Cesare. E tutto è dell’amore. O da morir dal ridere. A scelta.
A scelta.

Usciamo dalla penombra (e, infatti, la chiameremo Lucilla). Mi viene in mente di quando stavo leggendo “Underworld” di De Lillo; inizia con questa partita di baseball che dura diverse pagine, ma non è per niente noiosa, anzi. E mentre leggevo, ho pensato a “Enjoy Your Worries You May Never Have Them Again” dei The Books (altre due note a margine. La prima: notare la curiosa convergenza fra il moniker dell’artista e la sua traduzione italiana, parlando di libri, appunto. La seconda: è davvero un brano straordinariamente suggestivo, intriso di una sua poetica immediatamente percepibile, così pervaso di suoni sconclusionati e da un andirivieni di voci). Era bello, perché sembrava fatta apposta per quel momento lì, quello descritto, quell’atmosfera dilatata e un po’ sospesa. Un po’ epica, anche.
A volte, pensando alla musica associata alla poesia o alla parola scritta, mi sento in bilico tra libertà e costrizione. Da una parte il pentagramma, la metrica. Dall’altra le immagini, i suoni.
Ma è qui che viene il bello. Qui comincia il gioco.