Interviste
Il grande cerchio 3 – Conversazioni con Valentina Cidda Maldesi
Terza parte: la bellezza della sensibilità
a cura di Pier Angelo Cantù
Riprendiamo, e chiudiamo, le conversazioni con Valentina Cidda Maldesi dal nostro divano virtuale ripartendo dal teatro, l’ambito espressivo in cui, almeno nell’oggi, Valentina esprime tutta la propria potente vocazione, in un mondo sempre più difficile e complicato e reso disabituato a ricevere l’esperienza che Antonin Artaud descriveva perfettamente in un passaggio di “Il teatro e il suo doppio”.
“Ecco l’angoscia umana in cui lo spettatore dovrà trovarsi uscendo dal nostro teatro. Egli sarà scosso e sconvolto dal dinamismo interno dello spettacolo che si svolgerà sotto i suoi occhi. E tale dinamismo sarà in diretta relazione con le angosce e le preoccupazioni di tutta la sua vita. Tale è la fatalità che noi evochiamo, e lo spettacolo sarà questa stessa fatalità. L’illusione che cerchiamo di suscitare non si fonderà sulla maggiore o minore verosimiglianza dell’azione, ma sulla forza comunicativa e la realtà di questa azione. Ogni spettacolo diventerà in questo modo una sorta di avvenimento. Bisogna che lo spettatore abbia la sensazione che davanti a lui si rappresenta una scena della sua stessa esistenza, una scena veramente capitale. Chiediamo insomma al nostro pubblico un’adesione intima e profonda. La discrezione non fa per noi. Ad ogni allestimento di spettacolo è per noi in gioco una partita grave. Se non saremo decisi a portare fino alle ultime conseguenze i nostri principi, penseremo che non varrà la pena di giocare la partita. Lo spettatore che viene da noi saprà di venire a sottoporsi ad una vera e propria operazione, dove non solo è in gioco il suo spirito, ma i suoi sensi e la sua carne. Se non fossimo persuasi di colpirlo il più gravemente possibile, ci riterremmo impari al nostro compito più assoluto”.
Per Valentina Cidda questa dichiarazione nei confronti del pubblico trova espressione in PFF – Piano Forte Forte, la sua più recente fatica artistica (è proprio il caso di dirlo) che sta registrando riconoscimenti e consensi sempre più ampi e che presto sarà nuovamente in tour in Italia per molte date.
PFF è una performance pazzesca che sembra legare perfettamente la tua formazione filosofica nell’utilizzo della parola con il resto delle tue potenzialità espressive come autrice e attrice…
Questo spettacolo è, di fatto, innanzitutto, la materializzazione piena della potenza creativa scaturita dall’incontro e dalla collaborazione con Valentino Infuso, genio folle e sfrontato, artista unico, performer straordinario, poeta, autore e regista che ha saputo raccogliere l’essenza di tutto il mio potenziale e “scaraventarmi” sulla scena, teneramente, duramente, senza mezze misure, con la creazione di queste due ore di monologo. Una performance da gladiatore nell’arena, dove tutto è affidato solo a me e al mio unico compagno di scena, il pianoforte.
Qual è l’essenza dello spettacolo?
E’ difficile descrivere ciò che PFF è: un lavoro al quale si può solo assistere per comprendere, una commistione potente, ora tenera e morbida, ironica e leggera, ora brutale e spietata tra racconto, poesia, voce, musica, corpo, intimità, urlo, esplosione sensoriale ed emotiva, incanto, scoperta, trasmutazione, magia. PFF è un opera alchemica. E’ il racconto della vita di una donna, dal momento della nascita fino alla vecchiaia e alla morte; un pretesto, forse l’unico, il più potente, per dire, mostrare, sussurrare, urlare il senso dello stare qui e ora, nel viaggio terrestre, a camminare, perché via via ogni goccia di piombo esistenziale sia condotto a diventare Oro. Una favola oscura i cui personaggi prendono vita plasmati dall’invisibile ad ogni istante, dove tutto è all’ultimo fiato, senza tregua, dove la storia di una vita si fa tessuto intrecciato di dolore e bellezza, un segreto di liberazione, un affresco intimo e profondissimo sull’anima umana.
Come è nato il progetto?
Avevo da tempo il sogno di mettere in scena un monologo che raccontasse una Vita, attraverso l’interazione unica con il pianoforte e intuivo che questo, semmai fossi riuscita nel mio intento, sarebbe stato probabilmente un punto di arrivo importante nel mio lavoro; ma non avrei mai potuto realizzarlo senza la scrittura e la regia di Valentino Infuso. Indescrivibile l’emozione nel leggere i frammenti di testo che Valentino mi inviava un po’ alla volta, via via che scriveva, e scoprirmi commossa, tra le lacrime e le risate, penetrata e scossa, divertita e scioccata, fremente e titubante a tratti, titubante con me stessa, davanti a tanta forza drammaturgica e al compito di doverla incarnare sulla scena.
Portaci nelle pieghe del testo e della performance…
“PFF – Trisonata per corpo femminile e pianoforte”, drammaturgicamente, si compone appunto, di tre sonate, tre parti, tre fasi dell’esistenza, i tre stadi di un opera alchemica.
Nella prima sonata, “Le origini del male”, si narra la nascita, l’inizio del viaggio terrestre di una piccola donna che comincia, a poco a poco, ad essere piegata, logorata, congelata, dalle grandi bugie del mondo degli “adulti”, e poi la prima violenza, la vergogna, le bugie, l’assenza da sé, la ricerca disperata di un respiro d’amore che manca, manca sempre, manca ovunque, manca da sempre, lo smarrimento, la paura.
La seconda sonata, “l’Inferno”, si apre con l’avvio verso la vita da “signorina” e percorre, attraverso i passaggi del diventare donna, gli schemi che, dal primo germe di dolore originario, vanno a crearsi e ripetersi ostinatamente, sciami di demoni evocati e nutriti costantemente in un anelito inarrestabile di autodistruzione. La tensione alla vita, l’omicidio continuo di ognuno per mano di ognuno, il disincanto, il dolore, la fuga, la rabbia che salva dalla disperazione ma lo fa avvelenando inesorabilmente il cuore.
La terza sonata è la guarigione. La trasformazione. L’approdo alla comprensione ultima e suprema che tutto è perfetto. Che tutto ha il suo senso, il suo posto, il suo spazio di sacro apprendimento se impariamo a “vedere”. E’ la dissoluzione dell’ego, la fine di ogni pretesa, l’accoglienza della Bellezza, la resa.
Un monologo muto, dove il vuoto purifica la parola e la restituisce scarnificata e leggera, libera e solenne nella sua trasparenza inafferrabile, dove le labbra si muovono ma la voce non raggiunge lo spettatore, è interiore, profonda, segreta, unica, eppure più che mai comunicante e schietta, più che mai chiara nella sua comunicazione.
Cosa significa per te portare in scena ogni volta PFF?
PFF è uno spettacolo che è nato e ha continuato a nascere senza fine durante il tempo di lavorazione e creazione e che, probabilmente, non smetterà mai di nascere, poiché muore e si rigenera come una fenice ad ogni replica, dopo aver bruciato con me sulla scena, ardentemente, come fosse di per sé un essere vivente, palpitante, che mi prende per mano, mi strattona, mi conduce e dall’inizio alla fine non lascia respiro; è un’immersione totale, un rapimento, un’estasi, un’apocalisse e un big bang insieme. Un gigante dal ventre pulsante che mi divora per il tempo che sono sulla scena e mi espande, con una grazia assoluta, delicata e violenta, impossibile da dire.
Non sarò mai abbastanza grata a Valentino Infuso per la sua scrittura, la sua guida, la sua maestria maniacale da architetto rinascimentale, la sua assoluta, lucida, eccezionalmente coraggiosa follia, la sua presenza al mio fianco nella creazione di questo spettacolo, un colosso alato, travolgente, fiero, assetato di volare. Uno spettacolo che contiene potentemente tutto ciò che sono e sono stata ma che, nello stesso tempo, non assomiglia a niente di tutto ciò che c’è stato prima. Un punto zero. Un portale. Un varco spalancato su ogni sviluppo possibile.
La tua descrizione di PFF mi riporta fatalmente a tuo papà Mario e alla tua infanzia, mentre assorbi da lui gli elementi di bellezza della tua sensibilità: l’empatia per le persone, il minimalismo, la ricerca ossessiva dell’autenticità. Vorrei percorrere con te il ricordo della grandezza di Mario: quanto e come ha dato al cinema italiano prima e al cinema di Hollywood in seguito. Mi racconti qualche storia, qualche aneddoto, qualche visione onirica legata a lui?
Mario, papà, il grande Mario Maldesi, maestro delle voci, cercatore di verità e acerrimo nemico della “recitazione”, attore e collaboratore fidato di grandissimi autori e poeti, direttore di doppiaggio e post sincronizzazione di tutto il più grande cinema internazionale e italiano, collaboratore fidato di tutti i grandi registi italiani e dei più grandi registi stranieri, maestro di tanti, guida di innumerevoli giovani allievi… Papà è stato per me il mio più grande maestro, il mio più grande rivale, il mio più fedele alleato, il mio più acerrimo sfidante, il mio più amato compagno. Non è facile essere figlia di un padre così, specie se scegli di percorrere strade che abbracciano le sue, specie se entrambi avete sangue sardo, testardo e orgoglioso nelle vene, specie se Lui ha una severità marziale rispetto al suo lavoro e alla sacralità della decisione di perseguirlo e la figlia va a nozze con la sua durezza e la sua sottile maniera di metterla alla prova con se stessa. Un lungo braccio di ferro fatto di tante prove durissime, ma anche di momenti di conquista e di ammirazione autentici che difficilmente potrebbero essere tradotti in parole.
Ho amato tanto mio padre, forse troppo; lui era il mio re, il mio idolo, il mio sole. Eppure, anzi forse proprio per questo, negli anni in cui sviluppavo la mia arte e la mia ricerca, mi celavo al mondo, non ho mai usato il suo cognome d’arte, fino a poco tempo fa, e comunque fino a dopo la sua morte. Mario Maldesi e Valentina Cidda sono stati sempre due entità separate, per scelta e orgogliosa decisione, mai si fosse potuto pensare che qualsiasi cosa ottenevo la ottenevo in veste di figlia di Mario Maldesi. Ci siamo persino trovati, una volta, in mezzo ad altre persone a salutarci con una calorosa stretta di mano, con io che gli dicevo: “Maldesi, vado al bar, ti porto un caffè?” Ho dedicato una puntata di Effetto Notte, la mia trasmissione su Rai Radio2, alla sua storia e alla storia del suo lavoro, presentando questo colosso della grande bottega del cinema Italiano, puntata condotta da me e Carlo Pastore insieme, chiamandolo Mario e chiedendogli, a inizio trasmissione, se potevo dargli del tu.
Naturalmente a questo si univa la nostra intima verità, fatta di infiniti momenti di bellissima, intensa e complice collaborazione, emozioni grandissime, condivisione autentica e profonda, riflessioni, discussioni, litigi e tregue, appassionate e controverse camminate insieme sotto i cieli notturni di Roma, dopo teatro o dopo il cinema, a disquisire per ore sul senso di un testo, sull’inconscio di un personaggio, sulla miseria di un mondo che puntava sempre più alla quantità e sempre meno alla qualità fino all’implosione della bellezza autentica in una bolla molle di nebbia di ignoranza contagiosa. “La gente è “ignorante – diceva spesso -, ignorante nel senso che ignora: il pubblico va educato, il pubblico è intelligente, sensibile, capace, vivo, lo stanno drogando, lo stanno piegando, è un sacro dovere educarlo alla verità e alla bellezza”.
Prova a descrivere il fulcro più profondo di tanta ampia ammirazione… Cosa possedeva Maldesi che lo faceva amare così tanto?
Dai tempi degli inizi, dai tempi della radio, subito dopo la liberazione di Roma, quando c’erano ancora gli americani in via Asiago e si entrava con il pass degli Yenkees, da quando nel ‘47-‘48 tenne una rubrica di arte dialettale romanesca, diretta da Nino Meloni e andava da Trilussa, nella sua casa magica in via Maria Adelaide, e lui gli dava dei sonetti inediti, glieli leggeva personalmente e poi, a sua volta, papà li leggeva e li commentava alla radio. Dai tempi in cui la stessa cosa faceva con Giuseppe Ungaretti fino all’ultimo dei suoi giorni, papà ha perseguito sempre, profondamente la ricerca della verità, la trasmissione pura dell’interiorità, la ferrea convinzione che ogni “recitazione” fine a se stessa dovesse essere distrutta. Quando scelse il doppiaggio e la post sincronizzazione come luogo prediletto della sua espressione artistica, rivoluzionò da subito tutto il sistema, che utilizzava le belle voci dei doppiatori dei film di Hollywood in maniera seriale e abitudinaria anche nei grandi film neorealisti e si fece, fin da subito, fautore del “doppiaggio dell’interiorità” mettendo in atto una ricerca umana, psicologica, estremamente attenta e scrupolosa, portando in sala di doppiaggio gli attori di teatro a discapito dei doppiatori, portando il dialetto nelle sale cinematografiche, cercando, frugando, assaporando, godendo della bellezza nuda e autentica dell’espressione umana. Questa ricerca della verità, questa maniacale e assoluta attenzione a ogni sfumatura, questa sensibilità quasi sovrumana per le voci e le anime a cui andavano ad abbinarsi, hanno reso papà unico nel suo lavoro, amato, scelto e ringraziato da tutti i più grandi registi della storia del cinema italiano e mondiale e da tutti i grandi attori di cui è stato guida, compagno di avventure e collaboratore.
E questa stessa sensibilità io l’ho percepita e bevuta a pieni sorsi fin dai primi anni della mia vita, dove papà, durante una cena, mi descriveva le paure segrete di una ragazzina che magari aveva sentito parlare la mattina all’uscita di scuola, e l’ansia celata nella voce della fruttivendola, e la rabbia nascosta dietro la calma piatta e apparente della voce della portinaia, e mi riprendeva su un mio parlare cantilenante quando cercavo attenzione, facendomi notare che così ottenevo l’effetto contrario, spiegandomi perché, e ridendo della mia faccia perplessa e vagamente contrariata. “Ricordati sempre – mi scrisse una volta – il vero attore è un cercatore d’oro, un esploratore infaticabile del mistero umano nella sua intelligenza. Il vero attore è un artista. E il vero artista è Libero e chi è libero non ha bisogno di recitare per stare comodo. Niente di più pericoloso della comodità. Non bisogna cadere mai in questa tentazione terribile di mettersi comodi. Mai. Da nessuna parte”.
Vorrei chiudere questo grande cerchio chiedendoti che cosa stiamo perdendo oggi di tutto questo valore e quale può o deve essere il compito di un artista per provare a ricostruirlo…
Cosa stiamo perdendo? Tutto e niente. Ogni istante. Come sempre. Come fin dall’inizio dei tempi. Dai tempi dei tempi il potere crea schiavi, e tiene le masse nell’ignoranza, e usa e abusa. Dai tempi dei tempi il sapere è di pochi, studiare un privilegio che oggi, a dire il vero, è concesso a chiunque lo desideri davvero. Dai tempi dei tempi il mondo si nutre di inganni e abbagli. Dai tempi dei tempi esiste la violenza, la persecuzione, l’imbroglio di pochi a discapito di molti. Dai tempi dei tempi il mondo è perduto e va a rotoli, ma dai tempi dei tempi la Vita è intatta. Ed è sempre li che risplende e chiama. Sta a noi scegliere per cosa camminare, e dove, e come parlare, cantare, sognare, e cosa creare, e dove vibrare. Sta a noi decidere ogni istante se abbattere muri e costruire ponti o far crollare ponti e innalzare muri. Lasciatemi guardare qualunque essere umano negli occhi per qualche minuto, lasciatemi parlare con lui, lasciateci un’ora a far cadere le maschere e ne usciremo entrambi trasformati. Questo è il Teatro vivo. Questo è possibile sempre.
Fare arte in questo modo può avere ancora una funzione sociale? Può incidere nel pensiero? Perché questa ostinazione nella ricerca e nella condivisione del bello oggi sembra interessare a sempre meno persone?
Mah, personalmente credo che forse non c’è mai stato un bisogno tanto vivo di verità, comunicazione e contatto umano come oggi. Non c’è forse mai stata una sete tanto profonda di bellezza autentica. Un bisogno tanto vitale di emozionarsi, sentire, tornare a sé. Solo che è una sete tenuta a forza, e con ogni mezzo, nell’inconsapevolezza di essa. Il vuoto troneggia sui social, sui manifesti, in televisione, sugli occhi rapiti dai telefonini che non si incontrano più per la strada, sul tram, tra i tavolini di un caffè. Ma il vuoto non è la Realtà in cui l’umano può vivere davvero, è un inganno, un guinzaglio di illusione, una stanza buia, e una stanza buia già si illumina con la fiamma di una sola candela. Compito di un artista è accendere una candela dopo l’altra. Instancabilmente. Qualunque cosa accada. Compito di un artista non è, e non è mai stato, quello di lamentarsi del sistema che impedisce la fruizione della bellezza e dedicare a questa battaglia le sue energie. Il compito di un artista oggi, come in ogni tempo, è sempre e solo quello di fare Arte e di cercare ogni possibile strada, libera e indipendente, per raggiungere la gente, quanta più possibile, una persona o centomila: ogni singolo cuore toccato ha un valore inestimabile. Compito di un artista è perseguire l’incontro autentico, la trasmissione del pensiero, la condivisione e lo stimolo ad aprire gli occhi, a farsi domande, a non accontentarsi delle risposte confezionate, a ridere, piangere, tremare, a comprendere che, se fin da bambini ci insegnano a sederci in un banco, a scegliere questo o quello, a obbedire per il resto della nostra vita alla fila guadagnata, al posto attribuito, noi siamo esseri fatti “della stessa materia di cui sono fatti i sogni” e possiamo scegliere di essere liberi e non guadagnare alcun posto, nemmeno l’ultimo. Compito di un artista oggi, ieri e sempre, è restare in piedi, pure se tutto intorno crolla, a nominare il fuoco, anche quando la voce è raggelata, anche quando parlare brucia.
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