Il grande cerchio – Conversazioni con Valentina Cidda Maldesi 1

Prima parte: la costruzione della sensibilità

Pier Angelo Cantù

Valentina Cidda Maldesi (1)

Partiamo dal cognome, anzi dai cognomi. Valentina è figlia di Mario Cidda che, con il cognome d’arte Maldesi, è conosciuto come il più grande direttore del doppiaggio italiano. Precursore di uno stile, uomo di profonda visione culturale, strenuo difensore delle sue idee, Maldesi ha saputo conquistarsi la fiducia totale dei maggiori registi del nostro paese all’epoca in cui (dalla metà dei ’50 in poi) il lavoro di post-sincronizzazione della voce sulle immagini era uno degli aspetti più delicati della realizzazione di un film. Inventore di un paradigma, affida all’uso della voce curato maniacalmente un peso enorme nella struttura del personaggio di un film: non recitazione, ma ricerca dell’autenticità. Va da sé, diventa in seguito il punto di riferimento del doppiaggio in italiano per le produzioni di tutto il mondo. Sono note le sue frequentazioni con Stanley Kubrick (altro grande maniaco del sonoro e del doppiato in ogni lingua), Fellini, Visconti, Mel Brooks e molti altri; così come sono celebri i suoi interventi nel sincrono delle pellicole di maggior successo per almeno quattro decadi. Mario Maldesi ci lascia nel settembre del 2012 all’età di 89 anni, quando la figlia Valentina – che nel frattempo ha collaborato con lui nell’adattamento dei dialoghi di alcuni celebri film, tra cui “Eyes Wide Shut” – è poco più che trentenne.

Fin da piccola, Valentina sviluppa una sensibilità artistica notevole, sperimentandosi come attrice, cantante, doppiatrice e musicista. Il suo stile entra soprattutto nelle potenti pieghe dell’uso della parola applicata a diversi contesti artistici; del linguaggio come struttura portante di un’opera e della sperimentazione come veicolo di contaminazione e sintesi di diverse espressioni artistiche. Laureata in Filosofia della Comunicazione, nel 2005 fonda il gruppo di ricerca e produzione teatrale Dulcamarateatro; poi esordisce come cantante e autrice nei Kiddycar, perla dell’universo musicale indipendente italiano. In seguito è conduttrice radiofonica e, più recentemente, è tornata al teatro con alcune performance attoriali in cui la fisicità e la sensibilità di Valentina diventano un filo d’acciaio che la lega saldamente al pubblico, come accade nel recente e potentissimo “PFF – Piano Forte Forte”, che le ha già valso alcuni importanti riconoscimenti.

Valentina Cidda Maldesi ha portato avanti fin qui una propria ricerca personale sul lavoro dell’attore in quanto, prima di tutto, umano in azione, definendo un proprio metodo pedagogico, teorico e pratico che non si limita all’ambito teatrale, ma si espande a un ampio spazio di crescita e lavoro sul sé e sul “mondo”, consapevolezza e scoperta, gioco e percorso spirituale. E’ agganciando questo suo peculiare punto di osservazione sulle cose che ci sediamo con lei su un divano virtuale, per avviare una conversazione sull’arte e sull’umano.

Valentina, raccontaci tutto quello che hai assorbito e che, come un flusso narrativo in cui si è sviluppata la tua vita, ha costruito la tua sensibilità portandoti a dove sei oggi… 

Sono nata in un mondo incantato, il che non vuol certo dire che fosse un mondo semplice. Sappiamo bene quanto complesse e ardite possano essere le foreste da attraversare, e oscure certe valli e dure le prove da superare in ogni regno incantato che si rispetti. Ma sì, il mio mondo era un mondo incantato, i cui personaggi erano artisti, attori, registi, poeti, dove gli incontri e le feste a corte erano popolati da personaggi grandi, grandissimi che hanno fatto la storia del teatro e del cinema italiano e non solo italiano. Dove, tra le risate e le chiacchierate di mio padre con Federico Fellini, imparavo a ridere con leggerezza delle profondità abissali dell’animo umano. Dai racconti di Tonino Guerra imparavo la poesia di un vecchio paio di scarpe logore e lo sguardo che salva il mondo, perché sa trasformarlo e farlo cantare dove tutto sembra stridere e dolere, come doleva in quel campo nazista a Troisdorf dove Tonino fu prigioniero e dove – lui raccontava leggero – scriveva e recitava poesie in dialetto per portare allegria e tenere compagnia ai prigionieri romagnoli; dove dalle sue sceneggiature imparavo che tutto è possibile e che, se il mondo è perduto, la vita è intatta finche l’ultimo sguardo di un poeta autentico resterà sulla terra. Così volavo negli anni tra i tornanti delicati e affilati della sua scrittura, da “Amarcord” a “E la nave va”; da “Blow-Up” a “La notte”, da “L’avventura” a “Zabriskie point”; da “Uomini contro” a “Il caso Mattei”; da “Il Volo” di Theo Angelopolus fino al mio amore, quasi doloroso per quanto prepotente, per “Nostalghia” di Andrej Tarkovskij.

Fellini e Maldesi

Cosa imparavi in questa sorta di universo fiabesco?

Un mondo incantato dove dalle litigate al telefono di papà con Stanley Kubrick durante le lavorazioni di “Full Metal Jacket” imparavo il valore del saper difendere la propria posizione e il proprio pensiero con chiunque, quando si crede profondamente che sia giusto e percepivo sotto la mia pelle la passione e quel fervore feroce per il lavoro che si ama che toglie il sonno e la fame e ogni stanchezza. Dove dalla dolcezza di Anna Magnani e dalla sua timidezza imparavo l’umiltà della grandezza. Dove sulle registrazioni di Nino Rota imparavo a danzare scalza sulla grazia. Dove i film che vedevo e con i quali crescevo, i discorsi che ascoltavo, i segreti che spiavo, erano tesori di inestimabile valore il cui riflesso lucente avrebbe lavorato sulla mia mente e sulla mia sensibilità per tutto il mio avvenire. Dove io ero una principessa e papà era un re amato e rispettato dalle menti più brillanti del mondo dello spettacolo italiano in un tempo in cui spettacolo e arte erano ancora intonati in un unisono potente. Dove tutto era imprevedibile e niente era mai al proprio posto, perché il posto di ogni cosa cambia continuamente, ad ogni respiro di tempo; dove ogni weekend era teatro, opera, danza, magia, sorpresa.

Cosa c’era in questo mondo quando non c’era tuo padre?

Il mio mondo, incantato lo era a tutto tondo, perché se dalla parte di mio padre bevevo arte e spettacolo e incontri straordinari, dalla parte di mia madre bevevo dolcezza, e conoscenza della vita semplice e nuda, del lavoro delle mani, dei ritmi della natura, delle attese trepidanti del sole o della pioggia a nutrire la terra, della fatica della vendemmia, dell’uva da pestare coi piedi nudi, del raccolto da fare, del galoppo della cavalla e il profumo ventoso della sua criniera e, insieme, mi innamoravo ogni giorno di più della letteratura, della poesia, della storia grazie ai racconti della mia nonna materna, alle sue letture, alla sua cultura, al suo rituale di leggermi e raccontarmi poi i canti della Divina Commedia la sera, prima di dormire, fin dai primi anni della mia vita. Sono nata a Roma, ma cresciuta tra le fiere lusinghe della capitale del cinema e del teatro e la campagna toscana, dove mia mamma aveva il suo rifugio, alternando l’universo di giornate infinite con la mia tata, una contadina dalle mani di fata – tra fieno da falciare, conigli, capretta e cani, orto e temporali – a tutto l’universo stellato che strabordava dal cilindro prodigioso di mio padre. Il tutto unito alle ore con mia nonna, alla sua devozione per Dante, alla sua passione per le liriche provenzali, la letteratura cavalleresca, l’arte rinascimentale, la potenza della narrazione, tra Andersen e Shakespeare, Wilde e Proust, Collodi e Dostoevskij.

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In che modo l’amore per la parola (ascoltata, letta, scritta, parlata, cantata…) ha inciso nella tua solidità espressiva?

Cominciai fin da piccolina a scoprire il gioco del teatro e del doppiaggio cinematografico, prestando la mia voce, sotto la guida di papà, in numerosi film e imparando a stare sul palco, dietro le quinte, tra i discorsi e le riflessioni degli attori e i severi insegnamenti di mio padre che io rubavo, parola dopo parola, pensiero dopo pensiero, gemma dopo gemma, come una piccola gazza silenziosa che non si stancava mai. E dalla prima infanzia in poi, mai ho smesso di perseguire il mio amore e la mia dedizione all’arte scenica in tutte le sue forme, non percependo e non concependo possibile alcun confine tra le forme espressive in generale: scrittura, musica, canto, “recitazione” (parola che uso per convenzione ma che detesto usare), danza.
Ho studiato e messo alla prova me stessa, fin da giovanissima, con grandi maestri italiani e non, e portato avanti negli anni una mia personale ricerca estetica, filosofica, poetica nella creazione scenica e nel lavoro attoriale, che si è nutrita di ogni stimolo possibile, dal cinema alla letteratura, dall’arte antica e contemporanea alla filosofia, dallo zen alla gnoseologia, da tutte le sollecitazioni portate alle arti dalle avanguardie di sempre in ogni ambito di espressione artistica senza confini tra l’una e l’altra, dai corpi e dalle espressioni dei dipinti di Egon Schiele fino al genio di Pina Baush, per fare un esempio.

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A un certo punto la parola scritta è diventato il tuo ambito privilegiato…

A scrivere cominciai molto presto, raccogliendo fin da giovanissima piccole preziose pubblicazioni, premi e critiche importanti da autori e giornalisti del calibro di Adele Cambrìa, che divenne poi cara amica e guida per me e veicolo di conoscenze uniche, come ad esempio quella con Fernanda Pivano, donna straordinaria e mente incredibile, che ho avuto l’onore di poter frequentare. Ho coltivato negli anni un impegno costante nello studio, nella ricerca, nella passione sempre crescente per la letteratura, la drammaturgia, l’analisi del dialogo, le differenze di linguaggio, la scoperta di come il linguaggio stesso produce effetti di vera modulazione sul cervello e sulla percezione e la lettura sensibile delle cose, soffermandomi a lungo e in particolare sulle differenze tra Oriente e Occidente (mondi molto ben approfonditi anche durante i miei studi universitari in filosofia), all’osservazione sempre poetica per quanto attenta all’unione tra linguaggio verbale e linguaggio fisico, alimentando negli anni una sete continua di osservazione per le infinite potenzialità espressive del corpo umano in tutta la sua interezza: pensiero, parola, movimento, presenza, azione e non azione. La mia tesi di laurea in Filosofia della Comunicazione dal titolo “Ai margini dell’evoluzione – Spunti riflessivi sul corpo tra biologia e tecnologia” 110 e lode, fu un altro bello spunto per il viaggio della mia ricerca.

Valentina con Mario

Una passione che ti ha portato a dedicarti, per un lungo periodo, alla traduzione e all’adattamento dei dialoghi cinematografici di film internazionali in lingua italiana…

Una bella palestra a dire il vero. Adattare i dialoghi di un film, quando il lavoro è fatto davvero come dovrebbe essere fatto, è un’operazione culturale di fondamentale valore, è fare un viaggio in ascolto profondo dentro l’anima di ogni personaggio, nel suo background, nella sua storia, nella sua mente, nel suo vissuto. Comprendere come parla un personaggio è comprendere la sua vita e restituirla nella sua piena verità nelle parole che usa, nelle frasi che compone, nelle sfumature, nelle vibrazioni dei pieni e dei vuoti. Tra i film a cui sono più legata, sotto i dialoghi italiani dei quali ho posto la mia firma, ci sono “L’estate di Kikugiro” di Takeshi Kitano, “Una storia vera” di David Linch, “La tigre e il dragone” di Ang Lee, “Regole d’onore” e “The Hunted”, di Wiliam Friedkin, “Eyes Wide Shut” di Stanley Kubrick, “Tabù-Gohatto” di Nagisa Oshima, giusto per citarne qualcuno.

Hai cominciato molto presto anche a suonare…

A pochi anni di età, mi accostai con una certa innata sapienza al vecchio pianoforte di mia nonna, scordato e dimenticato nel salone grande, e scoprii che io e quel grande corpo scuro di legno e avorio e corde tirate e martelletti consumati eravamo capaci di amarci profondamente, e sapevamo capirci e raccontarci cose, e che a poco a poco imparavo a far tradurre alla tastiera emozione e sogni. Così quando mia mamma mi chiese se volevo studiare musica, beh il mio Sì fu trillante e assoluto!

PFF Pianoforteforte

A questo punto mi prendo la briga di fermare qui il fotogramma della prima parte di questa conversazione, convinto che ogni singola parola che avete avuto la bontà di leggere vada fatta risuonare ancora, perché comprendere come parla un artista – parafrasando Valentina – è comprendere meglio la sua vita, ma anche un po’ la nostra. E restituirla nella sua piena verità, nelle parole che usa, nelle frasi che compone, nelle sfumature, nelle vibrazioni dei pieni e dei vuoti non è affatto un esercizio di stile, ma un diventare noi stessi cassa armonica, amplificando all’esterno le più impercettibili modulazioni di suono capaci di modificare anche la nostra vita. Tenete presente questa ultima immagine perché, nella prossima conversazione, con Valentina Cidda Maldesi cominceremo proprio parlando di musica.