“IL LIBRO DELLE MIE VITE”

a cura di Silvia Longo

“Il libro delle mie vite” è un romanzo autobiografico, e nel contempo una riflessione profonda e illuminante sul senso di identità, dell’individuo e di un Popolo intero.
La storia personale di Aleksandar Hemon e la Storia del conflitto dei Balcani – e la successiva diaspora delle popolazioni coinvolte – si intrecciano in una narrazione dalla messa a fuoco perfetta, senza cadute di stile e fuori da ogni retorica, con ritmo incalzante e un tono in grado di declinarsi a seconda della necessità: ora ironico, ora drammatico, ora commosso e lirico. Una scrittura che arriva immediata, pochissimo filtrata dall’autore che sembra puntare alla ricerca della verità più che a una forma tecnicamente perfetta; a ricreare un ambiente geografico e antropologico che non esiste più, così come non esiste più la Sarajevo di quando Hemon era ragazzo e nella quale si identificava, conoscendone a memoria ogni strada, ogni angolo, ogni suono e odore.

Di dolore ce n’è moltissimo, in questo libro, e viene esplicitato in modo diretto, descritto nei meccanismi più sottili mentre riverbera nell’animo dei vari personaggi, persino in quello dei cani.
Le vite cui fa riferimento il titolo sono quelle vissute dall’autore. Perché quando la tua esistenza cambia direzione più volte, a causa di eventi esterni, ti sembra di averne vissute più di una.

 

  

Una vita al tempo dell’infanzia, con l’arrivo della sorellina Kristina come 

primissimo ricordo in cui riesco a osservarmi dall’esterno: quello che vedo siamo io e mia sorella. Non sarei mai più stato solo al mondo, non avrei mai più avuto il mondo a mia completa disposizione. La mia individualità non sarebbe mai più stata un territorio sovrano privo di presenze altrui. Non avrei mai più avuto il cioccolato tutto per me. 

Con le estati in campagna dai nonni, nella Bosnia nordoccidentale, un ricordo che sa di borscht:

Il borscht degli Hemon conteneva qualunque verdura fosse reperibile in giardino in quel momento – cipolle, cavolo, peperoni, fagioli e fagiolini, perfino patate – più almeno una varietà di carne, il tutto tinto di viola dalle barbabietole al punto da risultare irriconoscibile. (…) Vedo ancora mia nonna, la decana del borscht, con un’enorme pentola fumante tra le mani, che dalla cucina dondola verso il cortile, con la fronte che gocciola sudore nella pietanza conferendone quel tocco finale. Nonna posava la pentola su un lungo tavolo di legno, dove la tribù degli Hemon era in attesa, fremente per la fame. (…) La metafisica dei pasti in famiglia: il cibo va cucinato sulla fiamma bassa ma costante dell’amore e consumato secondo un rituale di inalienabile comunione. L’ingrediente essenziale per un borscht perfetto è una grande, affamata famiglia.

Una vita da adolescente, in una Sarajevo socialista in cui vigono regole precise, ma è ancora possibile la coesistenza pacifica di diversi gruppi etnici, e tuttavia l’idea di identità e  quella di alterità si affacciano grado a grado nella coscienza dell’io narrante:

Le nostre altre identità, l’etnicità di ciascuno di noi, per dirne una, erano del tutto irrilevanti. Tanto che, se eravamo consapevoli delle rispettive identità etniche, cioè dipendeva dai costumi antiquati ancora in uso tra i nostri familiari (…). Ma nell’istante in cui additi una diversità, ti addentri, a prescindere dalla tua età, in un sistema di differenze preesistente, una rete di identità, tutte fondamentalmente arbitrarie e indipendenti dalle tue intenzioni, nessuna delle quali oggetto di una tua scelta. Nel momento in cui alterizzi qualcuno, alterizzi te stesso (…) Loro erano il non-noi. Noi eravamo il non –loro.

Una vita da giovane adulto, l’età in cui fai i conti con la consapevolezza acquisita, e riesci a interpretare i segni della realtà in cui vivi: è il 1991 e a Belgrado le manifestazioni anti- Milosevic vengono

represse con il soccorso dei carri dell’Armata popolare jugoslava. Il primo sangue sparso dall’esercito fu quello di due giovani studenti; e sapevamo che il fiume non si sarebbe fermato. Entro la primavera la guerra imperversava in Croazia. Cominciarono ad arrivare le notizie di atrocità; pubblicammo foto di cadaveri decapitati e un’intervista a Vojislav Seseli, leader delle milizie serbe (oggi sotto processo all’Aja), che era famoso per aver giurato di cavare gli occhi ai croati con dei cucchiai arrugginiti. Evidentemente i normali cucchiai non erano sufficienti.

L’epoca in cui la Guerra incombe su Sarajevo e tutti ne percepiscono l’imminenza: qualcuno comincia a lasciare il Paese, adesso che è ancora possibile farlo. Hemon assiste, nel corso del TG della sera, al discorso di Karadžić in Parlamento:

Non era un membro del Parlamento, né possedeva alcuna carica elettiva. Era lì semplicemente perché poteva. La sua stessa presenza indeboliva e rendeva il parlamento ininfluente; spalleggiato dall’Armata del popolo jugoslavo a predominio serbo, parlava da una posizione di potere inattaccabile della vita e della morte di persone che quel parlamento rappresentava. E lo sapeva e se ne compiaceva. (…) Cresciuto in quella parte della Bosnia dove la posta è consegnata dai lupi (come usavamo dire a Sarajevo) Karadžić con la poesia epica serba aveva una grande confidenza. (…) Si riconobbe nel martirio del comando (…). Sarebbe stato l’eroe di un poema epico cantato da una lontana generazione futura. (…) Esaurì il proprio ruolo storico, pseudo eroico in meno di dieci anni. Nello squarcio della sua esibizione infernale centinaia di migliaia morirono, milioni (la mia famiglia inclusa) furono sradicati, un numero incalcolabile di persone pagò con il proprio dolore la sua incoronazione del panteon della poesia epica serba. (…) Karadžić fu un banale signor nessuno. Psichiatra mediocre, poeta minore e meschino malversatore prima della guerra, quando lo arrestarono era un ciarlatano fatto e finito con un ciuffo di capelli legato in fronte per attirare l’energia cosmica. Fu durante la guerra, esibendosi su un palco pieno di sangue, che poté esprimere appieno il proprio potenziale inumano.

Una vita da emigrato a Chicago (per un caso strano della sorte, Hemon si trova lì quando scoppia la guerra, invitato per un soggiorno di un mese, sotto il patrocinio di un’Agenzia presso la quale ha fatto domanda tempo prima):

avevo lasciato Sarajevo per l’America il 24 gennaio del 1992. Al tempo non potevo sapere che sarei tornato nella mia città soltanto da visitatore irrimediabilmente sradicato. Avevo ventisette anni (e mezzo) e non avevo mai vissuto altrove, né desideravo farlo. (…) A Chicago, feci richiesta di asilo politico. Il resto è il resto della mia vita.

 a cercare nuove geografie cui far riferimento, nuove opportunità di lavoro e aggregazione sociale:

A Sarajevo (…) i tuoi concittadini ti conoscevano esattamente come tu conoscevi loro. I confini tra interiorità ed esteriorità erano praticamente inesistenti. Se per qualche motivo scomparivi, i tuoi concittadini potevano ricostruirti collegialmente a partire dalla loro memoria collettiva. In questa città (Chicago), non avevo alcuna rete umana in cui potermi collocare; la mia Sarajevo, la città che mi ero portato dentro e ancora mi portavo, era in balia di un assedio e minacciata di distruzione. Il mio sradicamento era metafisico nella stessa identica misura in cui era fisico, Ma io non potevo vivere da nessuna parte; volevo da Chicago quello che avevo avuto da Sarajevo: una geografia dell’anima.

Da lì, Hemon segue gli sviluppi del conflitto, scopre che il suo professore di lettere dell’università di Sarajevo – coltissimo, appassionato di letteratura, soprattutto di Shakespeare, e suo modello di intellettuale – è diventato un collaboratore di Karadžić.
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Nel 1992, quando presero il via l’attacco serbo alla Bosnia e l’assedio di Sarajevo (…) da Chicago, al sicuro, guardai i cecchini serbi colpire alle ginocchia e alle caviglie un uomo che cercava di scappare da un camion centrato da un razzo. Sulle prime pagine delle riviste vidi i prigionieri emaciati nei campi serbi, e le facce terrorizzate della gente che correva sul viale dei cecchini. Guardai la biblioteca di Sarajevo consumarsi nella tenacia di fiamme dolose.

Una vita in cui Chicago diventa la casa di Hemon che, tornato in America dopo una visita a Sarajevo:

mi accorsi che il mio immigrato interiore aveva cominciato a fondersi con l’americano esteriore. Ampie parti di Chicago erano penetrate in me e lì si erano insediate; e quelle parti adesso le possedevo appieno. Vedevo Chicago attraverso gli occhi di Sarajevo.

In questa nuova vita, Hemon ricostruisce se stesso in senso sociale, professionale e affettivo. Si sposa e diventa padre.
Le ultime pagine del libro sono un distillato di coraggio e autenticità, in cui Hemon – autore e uomo – affronta la narrazione dell’ultimo dolore, il più grande che un padre possa provare: la malattia di una figlia piccola. A lei è dedicato “Il libro delle mie vite”: a Isabel, che respira per sempre sul mio petto.

 

  

Il primo capitolo del romanzo di Hemon si intitola “Le vite degli altri”. Come il bellissimo film di Florian Henckel von Donnersmarck.

Nella Berlino est del 1984, ancora spaccata a metà dai 46 km di Muro che la percorrono, il capitano della Stasi Wiesler – inquisitore inflessibile – è incaricato di spiare lo scrittore Dreyman. Approfittando di un’assenza di Dreyman, Wiesler posiziona microfoni in tutta la casa e comincia a spiare ogni conversazione dello scrittore, penetrando così nella vita sua e in quelle della donna e degli amici che frequenta. Colpito vieppiù dalle relazioni di affetto, amicizia e stima che legano Dreyman alle persone che ama, e soprattutto dal suicidio di uno di essi – il regista Jerska (ostracizzato dal regime per le sue idee politiche, e impossibilitato a lavorare in teatro) – Wiesler perde di vista ruolo e obiettivo, sente ogni sua certezza politica dissolversi se paragonata a ciò che gli si sta risvegliando nella coscienza. Un senso profondo di commozione e solidarietà gli impediscono di denunciare Dreyman e i suoi compagni quando scopre che sono in possesso di una macchina per scrivere portata clandestinamente a Berlino Est, con la quale Dreyman redige un articolo destinato alla rivista tedesto occidentale Der-Spiegel, e che tratta il numero altissimo di suicidi nella DDR, imputabili al regime e agli abusi di potere perpetrati dai suoi funzionari.

La scena che meglio descrive il momento culminante della “conversione” del capitano Wiesrel è quella in cui, dopo aver letto un libro di Bertold Brecht rubato dall’appartamento di Dreyman, ascolta la telefonata dalla quale Dreyman stesso apprende del suicido dell’amico Jerska, ed esegue al pianoforte un pezzo di musica il cui spartito gli era stato precedentemente donato proprio dall’amico scomparso. Si tratta della “Sonata per le persone buone” (Die Sonate vom Guten Menschen).
Nel film è associata all’ “Appassionata” di Beethoven, della quale Lenin disse: “Non devo continuare ad  ascoltarla o non terminerò la ‎rivoluzione”. In realtà questa sonata è stata composta da Gabriel Yared e Stéphane Moucha, autori della colonna sonora del film.

 

 

Dopo la caduta del Muro di Berlino, Dreyman scopre di essere stato protetto da un ufficiale della Stasi, del quale però conosce solo la sigla identificativa, e non il nome: “HGW XX/7”, e gli dedica “con gratitudine” il suo romanzo “Die Sonate vom Guten Menschen”. Wiesler lo acquista in una libreria riconoscendosi nella dedica. Al commesso che gli domanda se si tratti di un regalo, risponde “no, lo prendo per me”.

Il cerchio si chiude, e nel mio immaginario va a intrecciarsi con il cerchio narrativo di “Il libro delle mie vite”: il senso dell’identità personale e quello dell’identità degli altri si compenetrano e acquistano valore rafforzandosi a vicenda, in una coscienza permeabile e aperta alla relazione, nell’immedesimazione reciproca.

– “Il libro delle mie vite” di Aleksandar Hemon – Einaudi, ottobre 2013

– “Le vite degli altri” – Florian Henckel von Donnersmarck – Germania, 2006

– “Die Sonate vom Guten Menschen” – Yared, Moucha

Tutti i corsivi sono tratti da “Il libro delle mie vite” di Aleksandar Hemon