“L’UOMO CHE CADE”

“L’UOMO CHE CADE” di Don De Lillo

La caduta libera è la caduta di un corpo nell’atmosfera non frenata da un congegno di rallentamento quale un paracadute. È il moto discendente ideale di un corpo soggetto al solo campo gravitazionale della terra.

C’è un artista permorfativo, nell’America del dopo 11 Settembre, conosciuto come “l’uomo che cade”: provvisto soltanto di una rudimentale imbragatura, inscena a sorpresa singolari esibizioni. Appeso al balcone di un condominio, penzolante dalla graticcia della Carnegie Hall, sospeso dal Queensboro Bridge, in piedi sul parapetto di una terrazza. Si lascia andare a capofitto, un sistema di cinghie sotto la camicia e l’abito blu da impiegato. La postura ricorda quella di un uomo fotografato mentre precipitava dalla Torre Nord del World Trade Center, a testa in giù, le braccia tese lungo i fianchi, un ginocchio sollevato.

  

I newyorkesi ancora sotto choc – alcuni evitano i luoghi affollati, altri si documentano sulla cultura musulmana per meglio comprendere l’accaduto o cercano conforto nell’arte, gli adulti protesi a computare il danno emotivo subito dai loro bambini, che adesso scrutano il cielo con il binocolo per avvistare altri aerei diretti a impattare contro qualche edificio – non sanno interpretare il senso di tali performances. Qualcuno le reputa offensive, provocatorie, dense di violenza. Ma l’uomo cha cade non fornisce spiegazioni, non concede interviste.

Si diceva che le sue cadute fossero dolorose ed estremamente pericolose, per via dell’attrezzatura rudimentale di cui si serviva.

Il libro apre con il ritorno di Keith Neudecker a casa della moglie Lianne. Sebbene i due siano separati da più di un anno, è da lei che l’uomo si reca, istintivamente, salvo per miracolo dal disastro del World Trade Center: è sceso dalla Torre Nord in fiamme, un gradino alla volta, quasi trasportato dalla fiumana di persone in fuga; ha respirato il fumo che oscura l’orizzonte, scavalcato detriti e cadaveri. E un amico gli è morto tra le braccia.
Inizia, nei giorni a seguire, una lenta ricostruzione. Quella di un rapporto, quella di una città intera, quella di una cultura incentrata  sull’inattaccabilità, sulla certezza ora disillusa di essere al sicuro. E nel contempo, i newyorkesi hanno la percezione che sia iniziata anche la deriva, che il Sogno Americano si sia infranto, ciascuno forte e debole di una consapevolezza dolorosa: che il popolo americano abbia perso di vista se stesso troppo a lungo, nelle città impregnate di efficienza, nel perseguimento di obiettivi personali ispirati alle logiche capitalistiche. Che la ricerca della felicità, il cui diritto è sancito persino nella Costituzione, sia altro da ciò che si credeva. Che il Sistema intero sia collassato, come la Torre Sud nel suo implodere e sbriciolarsi, accartocciata su se stessa.

  

In tutto questo, Lianne cerca le proprie radici indagando nei trascorsi del padre e della madre, collezionando ricordi dell’infanzia, protesa a non perdere nulla del passato. Nel tentativo di ricostruire uno scudo di sicurezza per sé e la famiglia, si barrica in uno stato di continua allerta, scoprendosi capace di aggressività, di scoppi di violenza, addirittura, se si sente anche solo vagamente minacciata. Si interroga sull’esistenza di Dio, e quale Dio, nel caso, se il loro, il dio occidentale, o quello degli altri (gli altri, gli attentatori, vengono presentati da De Lillo in alcuni capitoli che descrivono la preparazione all’attacco e l’atto terroristico vero e proprio, con lo stesso tono narrativo formalmente distaccato ma potente, che coinvolge ed emoziona). Keith, che Lianne vede come un uomo fatto di futuro quando gli apre la porta, la mattina dell’11 Settembre, si perde nel gioco d’azzardo, arreso all’evidenza che la maggior parte delle vite non ha senso.

Nelle parole di Martin – amante della madre di Lianne – troviamo una sorta di profezia e di sentenza senza appello:

Malgrado tutto il potere che questo paese gestisce così sconsideratamente, lasciatemelo dire, malgrado tutti i pericoli che crea per il mondo, l’America è destinata a diventare irrilevante. (…) Presto verrà il giorno in cui nessuno penserà più all’America, se non in virtù dei pericoli che crea. Sta perdendo la sua centralità. Sta diventando il centro della sua stessa merda. È l’unico centro che occupa.

L’America come Paese delle grandi opportunità – celebrata nei film, nelle serie tv, nelle canzoni di qualche decennio fa – non è più la stessa. La letteratura e l’arte in genere si sono evolute nel tempo, riuscendo addirittura a prevedere ciò che sarebbe accaduto in seguito: che tutto ciò che è americano si sarebbe rivoltato contro l’America. I figli che divorano la madre o viceversa, in un’atmosfera di disfacimento e necrosi.
Tornano in mente i versi di “New York New York” (dal 1985 inno ufficiale della città), le cui interpretazioni più note sono quelle di Liza Minnelli e Frank Sinatra, grandiose di strumenti a fiato, cantate con voce piena in faccia al mondo, con ottimismo e quel tanto di arroganza. Di fiducia nel Sogno Americano.

“Voglio svegliarmi in una città che non dorme mai / E scoprire che sono il re della collina / Al top del successo.”

Bene, non vi è più molta attualità in quello swing pomposo, trionfale. La versione di “New York New York” che a mio parere meglio descrive l’epoca in cui viviamo, con le sue incertezze e contraddizioni, che meglio rappresenta la Grande Mela di oggi e il sentire comune di chi è in cerca di un’opportunità, è quella di Carey Mulligan che la canta in una scena del film “Shame”.
Vestita e acconciata come una nuova piccola Marilyn, “vittima” per eccellenza dello star system americano, dei propri sogni di gloria e delle proprie debolezze.
La fragilità del personaggio – Sissy, una ragazza ferita dalla vita e affamata di amore – cozza con le parole del testo. Ed emerge nella voce dolcissima e a tratti timida, nel pudore del porgersi che pure vibra di una speranza piccina e quasi infantile, limpida, coraggiosa:

“Queste piccole depressioni cittadine si stanno dissolvendo / Ricomincerò da lei / Nella vecchia New York. / Se posso farlo qui, posso farlo ovunque / Sta a te, New York, New York”.

 

“Shame”, film metropolitano del regista indipendente britannico Steve McQueen, è una potente trasposizione cinematografica della decadenza morale di New York, città dalla facciata impeccabile – begli edifici, uffici e servizi funzionanti, lavoratori alacri. Una metropoli di luci e ampie vetrate a specchio, di appartamenti panoramici e locali eleganti. In cui gli uomini, nel poco tempo libero, non cercano che avventure mordi e fuggi (il protagonista, interpretato da Michael Fassbender generoso e per nulla hollywoodiano nella recitazione, è Brandon, professionista di successo ma incapace di amore vero, che rifugge ogni contatto autentico a vantaggio del sesso fine a se stesso, verso il quale ha sviluppato una dipendenza patologica); in cui le donne di forte personalità, per divertirsi, praticano il karate, bevono shottini di tequila e si fanno abbordare dal maschio più appetibile.

McQueen “lavora” con i corpi degli attori, utilizzandoli in scene di nudo integrale e di sesso eplicito, scavando nella loro carne il senso del dolore, della vergogna, della paura. Il risultato è di un nitore chirurgico e perturbante.

  

Brandon e sua sorella Sissy sono persone in caduta libera: l’uno per incapacità di amare, l’altra per la necessità di essere amata. Le due facce di una stessa medaglia: quella della solitudine ingenerata dalla permanenza in una società per nulla a misura d’uomo, e lacerata dalla crisi di valori conseguente a una crescita economica senza cognizione. E così Keith e Lianne: l’uno tanto disilluso da deporre le armi e limitarsi a sopravvivere. L’altra destata a una bellicosità inedita, indotta dalla violenza che ha visto riversarsi nella sua esistenza.

“L’uomo che cade” di Don De Lillo, 2009 Einaudi
“New York New York” di John Kander-Fred Ebb, 1977. Nel 1985 la canzone diventa l’inno ufficiale della città di New York
“Shame” di Steve McQueen, 2011 Regno Unito

Tutti i corsivi sono tratti da “L’uomo che cade” di Don De Lillo