Approfondimenti
“OBSERVATORY MANSION”
“OBSERVATORY MANSIONS” di Edward Carey
Observatory Mansions è un edificio di quattro piani, in stile neoclassico, dotato di una cupola sul tetto che un tempo ospitava un osservatorio, adesso sguarnito di telescopi e ridotto a ufficioso ostello per i piccioni. La facciata grigia, ricoperta di piaghe e scritte in vernice spray, le colonne del portico sbreccate, gli interni sbiaditi e i servizi malfunzionanti, Observatory Mansions non ha conservato nulla dell’antica bellezza, dell’epoca in cui era un’ elegante tenuta, immersa nella campagna della periferia, con un grande parco, scuderie e cavalli. Nel suo costante avanzare, la città ha ricoperto di asfalto il verde dei campi, abbattuto alberi e costruito nuovi palazzi. Ora Observatory Mansions non è altro che uno spartitraffico circondato da un muro di cemento alto tre metri, una rotatoria, un’isola pedonale, dimenticata dalla città ma accerchiata dal suo convulso fluire, e a rischio di demolizione.
L’immobilità come arte e filosofia di vita: a questo si sono consacrati i sette residenti del palazzo – suddiviso in ventiquattro appartamenti – ciascuno cristallizzato in un ruolo o in una occupazione che non ammette cambiamento né evoluzione di sorta:
Frances Orme, trentasette anni, protagonista e io narrante del romanzo, dopo aver lavorato come statua vivente presso il museo delle cere, ora svolge la medesima mansione su un piedistallo cittadino, completamente vestito di bianco e con il volto ricoperto di cerone.
Nel tempo libero ha creato una collezione privata di oggetti, accuratamente classificati in un taccuino e scelti secondo regole precise – per far parte della collezione ogni articolo dovrà soddisfare i seguenti requisiti: essere amato, esser stato a cuore del precedente possessore più di ogni altro suo bene, essere originale, essere insostituibile. La collezione è nascosta nei sotterranei dell’edificio, in un cunicolo stretto, e Frances la custodisce come un museo, affezionato a ogni singolo lotto anche se è a uno in particolare che tiene: il primo che ha raccolto e che sposta in continuazione affinché risulti sempre il più recente, il più prezioso (…), il più delicato, complesso e ingegnoso oggetto che avessi mai conosciuto, l’oggetto superiore a ogni altro oggetto, (…) il vanto della collezione.
Frances indossa costantemente guanti di cotone bianchi: per evitare danni ai novecentottantasei oggetti contenuti in quel museo. Per evitare contatti diretti alle mie mani. Per evitarmi la vista delle mie mani nude.
Il padre di Frances da anni vive in poltrona. Un genio dell’inerzia: manteneva immobile il proprio vecchio corpo. Manteneva immobile il tempo. Il tempo è movimento, e i rapporti tra mio padre e il movimento erano tesi.
Sua madre vive nella propria stanza da letto, circondata da oggetti che fungono da ausilio alla memoria. Ciascun oggetto le apriva un corridoio temporale, ed è solo per osservarli che la donna di tanto in tanto apre gli occhi, e mai in presenza di altre persone.
Peter Bugg, inquilino dell’appartamento 10, è un insegnante a riposo, un precettore a riposo, una persona a riposo. Ha dovuto smettere di lavorare quando l’imprevista predilezione per un allievo ne ha scalfito la reputazione di professore crudele, e in seguito alla quale ha cominciato a soffrire di uno strano disturbo: un giorno quell’uomo inflessibile si era sorpreso a piangere. E poi a sudare incessantemente. I medici non riuscivano a spiegare (…), ma Peter Bugg sapeva cosa gli stava capitando, e ne era atterrito. Il suo intero corpo stava piangendo. Il suo intero corpo stava singhiozzando. Ma lui non ne conosce la ragione.
Nell’appartamento 16 abita la signorina Higg, la cui vita è scandita dagli orari delle fiction televisive: Claire Higgs esisteva di rado al presente, di rado al passato, e certamente mai al futuro. Aveva creato per sé una cornice temporale alternativa chiamata fiction, La signorina Higgs viveva per la fiction e aveva vissuto la fiction così assolutamente e per tanto di quel tempo che per lei la fiction era diventata realtà.
Nell’appartamento 20 abita un’abusiva della quale non si conosce il nome, e viene dunque chiamata Venti o Donna Cane perché come gli altri cani abbaiava, ringhiava, si rotolava per terra e li fiutava sotto la coda, nel parco.
In un lindo trilocale del seminterrato, vive il muscolo sfinterico chiamato Portiere. L’uomo dalle molte chiavi. Lo stoico. Assorto nelle pulizie, assorto nel tentativo di sterminare ogni singolo granello di polvere, assorto a spaccarsi il cuore. Come il piloro assolve al suo compito di permettere il passaggio del cibo nel processo digestivo, così il Portiere, muscolo non uomo, può rifiutare di aprirsi. Il Portiere, uomo non muscolo, sovrintendeva all’espulsione del sudiciume che giaceva nel copro di Observatory Mansions.
Sette personaggi che vivono una perfetta stagnazione, senza condividere nulla se non la solitudine e il timore di ogni minimo cambiamento.
Anni si erano accavallati agli anni senza che noi inquilini riuscissimo a distinguerli l’uno dall’altro. Certo, invecchiavamo; ma, dato che ci vedevamo ogni giorno, nessuno di noi (come in combutta) notava, o voleva notare, gli indizi di quell’invecchiare. (…) Eravamo diventati simili in virtù della gran quantità di tempo vissuta in solitudine – giacché più tempo si passa in solitudine e più si diventa scontrosi, e quindi – paradossalmente, la scontrosità accomuna anziché isolare.
La piccola comunità di Observatory Mansions cade dunque nello sgomento alla notizia dell’imminente arrivo di un nuovo inquilino, nell’appartamento 18.
Benché non fossimo felici, e benché fossimo reciprocamente affabili solo a sprazzi (…) c’era un certo sollievo da ricavare nella consapevolezza che la nostra individuale infelicità non facesse caso a sé. Che fosse spartita fra sette. C’era un certo piacere, forse anche una fratellanza, nel vivere con persone le cui vite erano confluite in una comune e perciò identica insignificanza.
Già ciascuno prende a ordire piani di sabotaggio per mettere il fuga il nuovo arrivato, o spera che muoia nel sonno la prima notte di soggiorno nella sua nuova abitazione.
In effetti, l’arrivo del nuovo inquilino – Anna Tap, una ragazza non bella, di piccola statura, gli occhi malati in modo irreversibile – porta da subito a una serie di cambiamenti tanti inattesi quanto inarrestabili. La garbata determinazione della giovane ad aprirsi una breccia nel cuore dei sette coinquilini costringe ciascuno di essi a fare i conti con il passato.
Inizia per Observatory Mansions il Tempo dei Ricordi, strano tempo nel quale fummo costretti ad assimilare rimembranze che venivano estirpate da ciascuno di noi affinché bussassero alle altrui porte, svolazzassero per le stanze, si insinuassero nelle nostre narici mentre dormivamo. Fu un tempo in cui i ricordi erano dappertutto, si muovevano furtivi e lacrimosi, pieni d’energie frustrate dal poco uso (…), imploravano un po’ di attenzione. Noi non riuscivamo a ignorarli, li stavamo ad ascoltare, ce li bevevamo d’un fiato.
Ciascuno si trova dunque obbligato a risalire al momento dell’abiura al ricordo, al morso della memoria che lo ha convinto a voler dimenticare. Che ha inchiodato lo scorrere del tempo a un eterno presente.
Giunge poi il Tempo del Silenzio, quello in cui il tempo riprende a scorrere con regolarità, in cui ciascuno riscopre se stesso e gli altri con una consapevolezza nuova.
Ecco tornare infine l’impresa di demolizione. Perché l’ultima parte del romanzo descrive appunto la demolizione di tutto, del caseggiato e delle ultime resistenze di Frances Orme al cambiamento. E ci verrà svelato il segreto del lotto 996, L’Oggetto per eccellenza della sua collezione.
“Observatory Mansions” è uno dei romanzi più belli che ho letto. A tratti realistico e a tratti surreale, ora ironico e ora commovente, capace di alternare candore e disincanto, di descrivere l’anaffettività di ritorno – ingenerata da un dolore troppo forte, che richiede l’uso di anestetici e filtri per poterlo sopportare.
È il romanzo dell’oblio e dell’inerzia necessarie a sopravvivere al passato e alla presa di coscienza di sé. E, sullo sfondo di una città sporca e in continua crescita – come ogni altra città reale – di un mondo polveroso e distratto, racconta la solitudine di persone che ricordano Eleonor Rigby e Padre McKenzie nella canzone dei Beatles. L’una intenta a raccogliere riso nella chiesa dove si è tenuto un matrimonio, ad aspettare alla finestra indossando una maschera. L’altro che si rammenda i calzini di notte e scrive sermoni che nessuno ascolterà.
“Ah, guarda tutta la gente sola.”
Persone che, come i residenti di Observatory Mansions, si sfiorano ogni giorno senza riuscire a comunicare, a confessarsi a vicenda il bisogno di amore che le strugge e che potrebbe salvarle.
Edward Carey, Inghilterra -1970, autore di opere teatrali e illustratore.
“Observatory Mansions” di Edward Carey, 2003 Bompiani
Illustrazione Anna Tap di Edward Carey
“Eleonor Rigby” (Paul McCartney – arrangiamento per ottetto d’archi di George Martin) da “Revolver” dei Beatles, 1966
Videoclip tratto da “Yellow Submarine” , regia di George Dunning , 1968
Tutti i corsivi sono tratti da “Observatory Mansions” di Edward Carey, a eccezione dell’ultimo, tratto da “Eleonor Rigby” dei Beatles.
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