PER IL TRAMITE DELLA LETTERATURA 2

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COME LA PANDEMIA DA COVID-19 È DIVENTATA L’INSONNIA DEL XXI SECOLO

di Lorenzo Gafforini*

a R.

«Felici i posteri, che non avranno conosciuto queste
disgrazie e crederanno che la nostra storia sia una favola!»
FRANCESCO PETRARCA, Familiarum rerum libri

2. La peste di Atene; da Tucidide a Lucrezio.

La prima epidemia documentata – come accennato – è la c.d. peste di Atene che coinvolse, appunto, la polis durante la Guerra del Peloponneso. Nell’omonima opera – in particolare nel libro II –, Tucidide descrive con dovizia di dettagli l’espandersi e le caratteristiche della malattia di cui «in nessun luogo si ricordava una pestilenza di tale gravità e una tale perdita di vite umane»3 . La malattia – che secondo lo storico avrebbe un’origine etiope – rappresenterebbe un unicum, tanto che «quello era un anno, a parere unanime, singolarmente immune da altri malanni; ma quali che fossero le infermità di cui poteva aver sofferto in precedenza uno, tutte finirono comunque per risolversi in questo morbo»4 . I sintomi sono innumerevoli e preoccupanti, tra cui: gonfiamento e arrossamento degli occhi, violenti colpi di tosse, spasimi, pustole e ulcerazioni e un’irrefrenabile e insaziabile sete. Addirittura, Tucidide precisa come alcuni sopravvissuti alla malattia rimangano menomati oppure «altri ancora, non appena si furono ripresi, persero completamente la memoria, e non ebbero più nozione di se stessi e dei loro cari»5 .

La città, cinta d’assedio dai peloponnesi, riversa in una situazione senza precedenti. Tralasciando l’analisi dell’epidemia al fine di trovare un correlato nelle malattie conosciute, è interessante soffermarsi sulle reazioni umane della popolazione che si trova braccata da un male sconosciuto senza un supporto medico adeguato. Infatti, Tucidide racconta come le reazioni siano fra le più svariate: chi decide di rifuggire i moribondi, chi invece si dedica agli amici e famigliari a costo di contrarre la malattia. Tali testimonianze dovrebbero ricordare – fra gli innumerevoli esempi –, il racconto evangelico di Gesù che contro le norme del tempo guarisce miracolosamente un gruppo di lebbrosi 6.

Tuttavia, lo spunto di maggior pregio che riporta lo storico è un altro: infatti, la capacità di Tucidide risiede nell’essere un impareggiabile osservatore, capace di tratteggiare affreschi pervasi di una genuina umanità. Ovviamente, anche questa epidemia risparmia e non sempre – come già precisato – i guariti riportano danni irreparabili. Alcuni di essi riescono a tornare alla “normalità”. Sull’argomento, in conclusione al cinquantunesimo paragrafo, Tucidide riporta un’osservazione apparentemente banale. Il testo recita: «maggiore pietà dimostravano […] verso i morenti e i malati coloro che si erano salvati dall’epidemia, poiché essi conoscevano già quelle sofferenze, e per se stessi non avevano nulla da temere: il contagio infatti non colpiva mai due volte la stessa persona, almeno non in forma così forte da risultare mortale. Gli altri si felicitavano con loro, ed essi stessi per il giubilo del momento provavano la vana speranza che più nessuna malattia anche in futuro potesse mai portarli alla tomba»7 . Con la consapevolezza che questo intervento non abbia necessità di un ulteriore commento, si rileva solo come queste considerazioni siano tranquillamente adattabili ai giorni nostri. Alcune volte capita che le testimonianze storiche risultino come asettiche, prive di qualsiasi sentimento o impulso, ma non è il caso di Tucidide. Nel libro secondo della La Guerra del Peloponneso, l’istinto di sopravvivenza emerge nelle sue sfumature più svariate attraverso il prisma del trauma, rifuggendo così qualsiasi generica catalogazione.

Tuttavia, Tucidide non manca a precisare come gli ateniesi si rivolsero anche agli dèi al fine di scongiurare il male che li aveva assaliti 8. Anch’essa risulta essere una reazione del tutto umana che, però, viene critica dal successivo poeta latino Lucrezio nel De rerum natura.

Lucrezio, attento sostenitore dell’epicureismo, nel sesto libro dell’opera descrive diversi fenomeni naturali davanti ai quali l’uomo di ritiene impotente9 e si abbandona, di conseguenza, alla superstizione. È immediato, dunque, il riferimento e la trasposizione in versi della peste di Atene descritta da Tucidide. Il poeta-filosofo riprende vividamente le sofferenze degli ateniesi, insistendo – ancora una volta – sul «silenzioso timore»10 che caratterizzava l’arte medica in quel frangente. Per questo, le vittime desolate e inerti abbandonato il culto divino, sopraffatte dall’assenza di «un rimedio comune sicuro» 11. A differenza della descrizione tucididea, Lucrezio descrive in maniera ancora più cruda e concreta l’evento, attribuendo ai singoli sintomi un’origine naturale e non divina. Nonostante questo, la versione lucreziana si discosta dalla filosofia epicurea, descrivendo la morte a seguito di un’epidemia come un evento traumatico, inconciliabile con il concetto di atarassia. Dunque, Lucrezio plasma un universo composto da atomi, sottoposto alle leggi naturali e per questo indipendente dalla volontà umana12 . Un’assenza divina senza, però, negare l’esistenza stessa degli dèi che risultano solamente indifferenti alle tribolazioni umane13 .

 3 TUCIDIDE, La Guerra del Peloponneso, Einaudi-Gallimard, Torino, 1996, par. 47, pp. 245, trad. Mariella Cagnetta.
 4 Ivi, par. 49, pp. 247-249.
 5  Ivi, p. 249. In merito si pensi anche al personaggio di Tonio, amico di Renzo ne I promessi sposi. Nel capitolo XXXIII Renzo, tornato al paese durante la peste, incontra per strada l’amico totalmente ammattito a causa della peste. Tonio continua a pronunciare la frase: «A chi la tocca, la tocca».
6 Insegnamento sicuramente non estraneo – fra gli altri – a San Francesco d’Assisi che si occupò anch’egli della cura dei lebbrosi. Per un approfondimento in materia si segnala il godibile e fine saggio di C. FRUGONI, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino, 1995.
 7 TUCIDIDE, La Guerra del Peloponneso, cit., par. 51, p. 251.

8 Una reazione non estranea alla tradizione dell’antica Grecia. A scopo esemplificativo si pensi al proemio dell’Iliade oppure al prologo dell’Edipo re di Sofocle. In entrambe le circostanze ci troviamo di fronte a un’epidemia di esplicita origine divina: nel primo caso Apollo diffonde la pestilenza fra le truppe greche; nel secondo caso, invece, è l’Oracolo di Delfi a sentenziare che Tebe è vittima dell’epidemia per l’uccisore impunito del precedente sovrano, Laio. Inoltre, sempre con riferimento alla mitologia ellenica, vi è un altro esempio – forse meno noto – narrato già nelle Metamorfosi di Ovidio: la peste di Egina. La malattia fu mandata da Giunone per punire la ninfa Egina, amante di Giove. La descrizione della peste viene ripresa anche da Dante nel Canto XXIX della Divina Commedia, descrivendo le sofferenze dei falsari. I versi 58-64 recitano: «on credo ch’a veder maggior tristizia / fosse in Egina il popol tutto infermo, / quando fu l’aere sì pien di malizia, / che li animali, infino al picciol vermo, / cascaron tutti, e poi le genti antiche, / secondo che i poeti hanno per fermo, / si ristorar di seme di formiche».
 9 In merito, si segnala l’analisi di matrice illuministica – che avrà poi felice seguito nel romanticismo – ad opera di Edward Burke sul concetto di Sublime, ovvero il delightful horror. Per il lettore italiano si segnala il testo E. BURKE, Inchiesta sul bello e sul sublime, Aesthetica, Milano, 2019, trad. di Giuseppe Sertoli e Goffredo Miglietta, la cui prima pubblicazione risale al 1757.
 10 LUCREZIO, De rerum natura, Einaudi, Torino, 2003, v. 1179, p. 397, trad. di Renata Raccanelli.
 11 Ivi, v. 1227, p. 399.
  12 La tematica in questione è ampliamente trattata nel libro II del De rerum natura.
13  Una concezione simile è ripresa anche nel libro III delle Georgiche di Virgilio. L’autore dell’Eneide, in questo caso, si sofferma sulla pestilenza che si scatena sul bestiame. Anche in questo episodio viene descritta tutta la crudeltà della natura, irresponsabile verso gli uomini e il volere divino. I versi trasmettono un realismo non comune, soprattutto in chiusura al libro III: «a niente è più buona la pelle e nessuno con acqua / può la carne espurgare né cuocerla al fuoco / né possono i velli tosare corrosi dal morbo/e nemmeno toccare le tele di putrida lana tessute; / ma se alcuno quei panni indossava terribili / pustole ardenti e un immondo sudore afferravano / il corpo marcioso che in breve il fuoco sacro sfaceva» (VIRGILIO, Tutte le opere, Sansoni, Firenze, 1975, p. 205, trad. di Enzio Cetrangolo). Inoltre, in epoca moderna si può trovare anche un collegamento con il celeberrimo Dialogo della Natura e di un islandese di Giacomo Leopardi, contenuto nelle Operette morali. Come evidenzia Saverio Orlando: «La Natura-matrigna, ostile e indifferente alle esigenze dei suoi figli» (G. LEOPARDI, Operette morali, Fabbri, Milano, 2001, p. 151, nota 1).


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