Immaginavo il sussulto tremendo

Immaginavo il sussulto tremendo – Cesare Pavese
a cura di  Mario Famularo

Sono andato una sera di dicembre
per una stradicciuola di campagna
tutta deserta, col tumulto in cuore.
Avevo dietro me una rivoltella.
Quando fui certo d’essere ben lontano
d’ogni abitato, l’ho rivolta a terra
ed ho premuto. Ha sussultato al rombo,
d’un rapido sussulto che mi è parso
scuoterla come viva in quel silenzio.
Davvero mi ha tremato tra le dita
alla luce improvvisa ch’è sprizzata
fuor dalla canna. Fu come lo spasimo,
l’ultimo strappo atroce di chi muore
di una morte violenta. L’ho riposta
allora, ancora calda, entro la tasca
e ho ripreso la via. Così, andando,
tra gli alberi spogliati, immaginavo
il sussulto tremendo che darà
nella notte che l’ultima illusione
e i timori mi avranno abbandonato
e me l’appoggerò contro una tempia
per spaccarmi il cervello.

(Cesare Pavese, 9 gennaio 1927)

Elico Baraldi, sul finire del 1926, progetta un doppio suicidio, il suo e quello della fidanzata – che resterà solo ferita di striscio dal colpo mortale di rivoltella che invece ucciderà il giovane.

Il ragazzo è amico di Cesare Pavese – che in quell’anno consegue la maturità classica e si iscrive alla facoltà di lettere dell’Università di Torino – e quel gesto lo segna profondamente.

Già due anni prima, appena diciassettenne, rivolgendosi ad un’attrice di cui si era invaghito, scriveva: “Ti vidi un giorno per alcuni istanti / e so che mai potrò più rivederti … il sorriso / il tuo sorriso doloroso, mai / me lo potrò scordare.”

La ferita della delusione e del fallimento amoroso, legata a doppio filo con l’ossessione della fine, sembra avvelenare sin dai primi anni l’immaginario del poeta – in uno schema che sembra destinato a ripetersi, accompagnandolo per tutta la vita, fino al suo tragico perfezionamento.

È passato poco dal suicidio dell’amico, e Cesare scrive un testo, terribile e lucido, che testimonia la tentazione (e il tentativo) di emulare il suo gesto.

La prima cosa che si nota è quel “tumulto in cuore”, quel sentire intenso al punto di ingenerare un dolore insostenibile, quando deluso.

Anche Pavese porta con sé una rivoltella come Baraldi, e ben si premura di essere in un luogo deserto, lontano da tutti.

È inverno, è sera. Il colpo di pistola ferisce la terra (e qualcosa suggerisce: “sei la terra e la morte”). Lo sparo è impressionante: il rumore istantaneo e letale, in quel silenzio di morte, fa sembrare l’arma più viva di ogni altra cosa: “ha tremato tra le dita alla luce improvvisa”.

Quel gesto appare come uno “strappo atroce di chi muore / di una morte violenta” (verosimile immaginare che quella modalità gli potesse sembrare estranea, pur solo istintivamente), e così, “ancora calda” la mette via e riprende la strada verso casa.

Tornando, intuisce la natura di un sussulto diverso, non “rapido”, non “violento”, ma “tremendo”: quel sussulto che lo travolgerà il giorno in cui le ultime illusioni (o speranze, a piacimento) e le ultime paure saranno definitivamente svanite.

Quel giorno, scrive, “me l’appoggerò contro una tempia / per spaccarmi il cervello”.
Quello era il suicidio del tuo amico Baraldi, Cesare, non il tuo.
Ma non è il caso di fare troppi pettegolezzi.