Intervista a Erika Marrella – Progetto SPRAR Torino

Nei mesi scorsi si è sentito molto parlare della rete Sprar (acronimo di sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), soprattutto in relazione al caso del sindaco di Riace Mimmo Lucano. Nel giro di qualche anno il paese con meno di duemila abitanti in provincia di Reggio Calabria, proprio grazie al sistema Sprar, era tornato a ripopolarsi accogliendo immigrati stranieri e includendoli nel proprio tessuto sociale, con il conseguente rilancio della locale economia. Il modello d’accoglienza di Riace era diventato noto anche all’estero, e Mimmo Lucano figurava tra le 50 persone più influenti del mondo nella rivista Fortune. Poi il decreto Sicurezza di Salvini è calato su questa realtà e su altre, falcidiando tutto il lavoro che gli Sprar avevano avviato sul territorio e proiettando i migranti nel cono d’ombra dell’irregolarità o nella meno virtuosa rete di Cas (Centri di accoglienza straordinaria) e Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo), a gestione privata, ma realizzati con soldi pubblici, che non garantiscono loro la stessa possibilità di inserimento sociale e lavorativo.
Ma esattamente come funziona la rete Sprar? Intervistiamo in merito la docente Erika Marrella, che da diversi anni lavora nella parte relativa alla scuola di lingua italiana in questo progetto a Torino.
 

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1. Come nasce il progetto Sprar a Torino e come si sviluppa?

Lo SPRAR (Sistema di Protezione dei Richiedenti Asilo e Rifugiati) era un sistema nazionale finanziato dal Ministero degli interni. Aveva il compito di accogliere a 360° i richiedenti asilo e i rifugiati all’interno di un sistema che li accompagnava verso l’inserimento nella società italiana. Uso il passato in quanto il decreto Sicurezza ne ha impedito l’accesso ai richiedenti asilo cambiando conseguentemente il nome, che ora è Siproimi. I comuni accedono al sistema presentando un progetto relativo al proprio territorio. Il progetto del comune di Torino prevedeva e prevede tutt’oggi interventi sotto più aspetti: quello legato alla scuola e alla formazione, quello legato all’accoglienza vera e propria in una struttura (si va da luoghi molto grandi con 4-5 persone a stanza ad altre realtà più piccole, fino in casi particolari ad alloggi in condivisione), quello legato all’accompagnamento nell’iter legale e burocratico per la richiesta dei documenti e infine quello legato all’inserimento lavorativo (con stage e borse lavoro per imparare un mestiere o farsi conoscere in campo professionale).

Dal 2004 la sede di via Bologna del CPIA2 è entrata a far parte del progetto SPRAR di Torino, su richiesta dell’Ufficio Stranieri del comune, relativamente al primo aspetto, quello formativo. È stato così ideato e messo in azione un progetto didattico specifico che prevede un sistema integrato di istruzione che, parallelamente alle lezioni interne della scuola di stato offre rinforzi e corsi ad hoc per permettere agli studenti di apprendere più velocemente le basi dell’italiano orale e scritto e poter essere in poco tempo più attivi ed indipendenti sul territorio torinese. In molti casi, gli studenti hanno avuto accesso più rapidamente che in passato all’esame di licenza media, grazie allo studio intensivo e al percorso formativo proposto e tagliato sulle necessità e sul livello di scolarità di partenza dell’allievo.

 

2. Dopo il decreto Salvini che cosa è cambiato?

Il decreto ha creato moltissima insicurezza sia alle persone direttamente interessate, i richiedenti asilo, sia alla società italiana. Una delle problematiche più grosse relative al progetto di Torino è stata quella di impedire ai richiedenti asilo l’accesso al sistema Sprar-Siproimi. Si è riscontrato negli anni che l’efficacia degli interventi del progetto portava a un inserimento lavorativo e sociale di molti beneficiari, proprio perché i richiedenti asilo, dovendo attendere il colloquio presso la Commissione territoriale (che ha il compito di valutare e decidere chi ha diritto al riconoscimento della protezione internazionale – quindi a un permesso di soggiorno per asilo, protezione sussidiaria o ancora motivi umanitari), utilizzavano il tempo a disposizione per imparare l’italiano, per apprendere un mestiere, per conoscere il territorio e le sue regole e, nei casi più virtuosi, addirittura per conseguire oltre alla licenza media anche una qualifica professionale. Il progetto, adattato su misura per cercare di fornire una grossa spinta all’inserimento all’interno della società, in molti casi ha funzionato, e i richiedenti asilo, una volta ottenuto il permesso di soggiorno definitivo, hanno potuto uscire dall’accoglienza con un buon bagaglio di conoscenze e istruzione, entrando a far parte della società italiana in modo dignitoso, indipendente e soprattutto sicuro. La sicurezza che i richiedenti asilo potevano acquisire nel percorso all’interno del progetto (una sicurezza in se stessi, nelle proprie capacità, nell’accoglienza da parte della società) si trasformava poi nella possibilità concreta di potercela fare anche nella vita fuori dal progetto e (per chi ne aveva lasciata una) di potersi ricongiungere con la propria famiglia. Quella sicurezza è la stessa che di conseguenza potevano percepire i cittadini italiani quando arrivava il nuovo vicino di casa con un permesso per asilo, con un lavoro, uno stipendio, una moglie o dei figli. La sicurezza dell’essere uguali, con gli stessi diritti, con gli stessi doveri all’interno della stessa società.

Un altro grosso problema, che contribuisce all’insicurezza dei richiedenti asilo è che il decreto non permette loro di avere la residenza. La burocrazia italiana purtroppo è in gran parte legata alla carta d’identità, perciò molti richiedenti asilo hanno avuto difficoltà dovute al fatto che gli veniva richiesta la residenza per stilare contratti di lavoro, avviare tirocini o borse lavoro, addirittura in alcuni casi permettere l’accesso a prestazioni dell’Asl. Tutto ciò ha creato frustrazioni e rallentamenti non indifferenti nel processo di inserimento sociale. Infine l’abolizione del permesso per motivi umanitari -che veniva rilasciato a quelle persone che pur non essendo perseguitate direttamente dal Governo del paese d’origine in prima persona, provenivano da paesi con guerre o grossa instabilità, dove la Commissione territoriale valutava non fosse sicuro il ritorno- ha creato una profonda incertezza nei richiedenti asilo. Questa precarietà, lo vediamo anche nei giovani e meno giovani italiani alle prese con il precariato, non può che minare la fiducia in sé stessi e non permette alle persone di concentrarsi in un percorso di inserimento nel territorio, ma soltanto in un caotico bisogno di sopravvivenza, che fa accettare lavori in nero, situazioni di sfruttamento, ambienti insalubri e, in certi casi, il rischio di venire attratti in circoli malavitosi. Il decreto Sicurezza purtroppo ha creato insicurezza: i richiedenti asilo, lo abbiamo visto quest’anno a scuola, sono più preoccupati, più tesi, meno concentrati sulle attività e su un futuro stabile in Italia. Potrebbe sembrare una buona cosa, e invece non è così nemmeno per chi non ama gli stranieri. Perché quando una persona si sente sicura, accolta e ben voluta, dà il massimo, ha piacere di inserirsi nella società, di conoscere gli usi e costumi locali, di dare il suo contributo onesto e sincero all’interno della popolazione locale, ha piacere di stabilizzarsi e creare una famiglia; di conseguenza tutta la sua vita e le sue attività saranno un arricchimento per il paese, un arricchimento culturale, e, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, un arricchimento economico. I soldi che i richiedenti asilo, una volta terminato l’iter di riconoscimento e inserimento in Italia, possono potenzialmente portare alle casse dello Stato e della previdenza sociale è la sicurezza economica di cui il paese potrebbe avere bisogno. È la stabilità di vita dei nuovi cittadini che può portare al miglioramento della qualità della vita e alla sicurezza di tutti. Ed è infine a progetti come lo SPRAR che bisognerebbe guardare per rispondere all’insicurezza e alla precarietà anche di quella parte di cittadini italiani che fatica a trovare un lavoro e a vivere dignitosamente e felicemente all’interno della società.

 
3. Perché lo Sprar è un sistema di inclusione migliore di altri? 

Lo SPRAR ha anni di esperienza alle spalle. È un sistema nazionale che lavora sul territorio da molto tempo, con un controllo centrale volto a impedire sprechi e a garantire qualità del servizio e caratterizzato da un continuo miglioramento per poter rispondere sempre più puntualmente alle esigenze. Il sistema dei CAS invece, come dice la parola stessa (Centri di Accoglienza Straordinaria), è un impianto creato in un momento di bisogno, molto velocemente, per rispondere a una richiesta. La preparazione, l’esperienza e la formazione sono necessarie per un buon servizio. Come sempre accade, anche in questo caso esistono ovviamente CAS virtuosi, che nonostante la breve vita, sono riusciti a proporre un buon percorso ai richiedenti asilo e rifugiati. Tuttavia la costruzione di nuovi sistemi di accoglienza, per essere efficace, non può essere né straordinaria, né precaria. Deve prevedere inoltre un budget adatto alle finalità che si pone, finalità che devono essere pensate in modo non disgiunto dalla società italiana. Accogliere solo per non far dormire per strada non è sufficiente se si vuole migliorare la società italiana. L’accoglienza deve portare a un proficuo inserimento sociale e lavorativo, per non rischiare di sprecare il denaro investito. I finanziamenti destinati allo SPRAR erano volti all’ottenimento di risultati concreti e virtuosi, che davvero rispondessero alle esigenze; una riduzione economica senza un ragionamento dettagliato sui bisogni e sugli obiettivi rischia di portare a uno spreco di denaro pubblico maggiore rispetto all’investire una somma più elevata che porta a concreti e definitivi risultati.

 
4. Puoi raccontare qualche caso che ti è rimasto particolarmente impresso? 

Lavoro nel progetto SPRAR di Torino da sei anni, e da undici con i rifugiati e richiedenti asilo. Ogni persona con cui sono entrata in contatto è un mondo. Ho conosciuto moltissimi studenti che mi hanno fatto capire cosa vuol dire la tenacia e la forza di volontà. Da insegnante, posso dire che troppe sarebbero le persone che mi hanno dato degli insegnamenti per poterle ricordare tutte indicando anche solo i loro nomi. Quando si conoscono le persone e le si ascolta, appare evidente che non ci sono differenze che impediscano la formazione di una società multietnica, prospera e felice.

 
5. Qual è il futuro dello Sprar? 

Lo SPRAR si è sempre rimodellato e modificato per rispondere alle esigenze della sua utenza. Pertanto immagino lo farà anche in questo caso, cercando di fare il possibile, per quanto sarà nelle sue capacità, per proporre percorsi di inserimento duraturi, fruttuosi e soddisfacenti per chi li vive e per chi li osserva.