La coolness e il cavo della mano

Cosa significa essere cool?
Non è l’argomento che svilupperò in questo articolo, metà recensione e metà approfondimento. Raccontando la serata londinese nella quale PJ Harvey ha presentato le poesie e le nuove canzoni scritte per il progetto “The Hollow Of The Hand”, condiviso con il fotografo Seamus Murphy, è però impossibile non partire dalla constatazione di quanto l’artista del Dorset abbia riposizionato ancora una volta l’asticella della propria coolness. Un concetto, questo, sfuggente che Caleb Warren e Margaret C. Campbell hanno cercato di indagare per conto del Journal of Consumer Research in un interessante articolo di qualche anno fa, intitolato proprio “What Makes Things Cool? How Autonomy Influences Perceived Coolness”, sunto di un’indagine che cercava di dare risposte meno sfuggenti alla complicata domanda sulla natura e sull’origine della coolness.

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Ad esempio, a me piace l’accostamento con la parte buona del termine “altezzoso”, se non altro perché mi è stato affibbiato da una persona che quasi mai parla a sproposito e che nell’occasione si è curata di circostanziare i significati alti e le attinenze amabili. Uno stile di vita, un atteggiamento palpabile, uno snobismo involontario, diffuso tra una certa nobiltà italica dell’epoca in cui l’opulenza personale andava declinata con nonchalanche, senza farla pesare (ambito, peraltro, che i miei avi non si sono trovati a frequentare). Un luogo naturale dello spirito, un’umiltà ricercata, perché il distacco ironico dalle proprie risorse costava fatica, andava allenato e costruito col tempo, poiché dava prestigio e allontanava la nobiltà del tempo dagli altri, i volgari arricchiti. Non potendo, ahimè, esercitare il distacco da risorse materiali che non possiedo, almeno non in misura tale da essere incluso in quel tipo di nobiltà, mi riconosco almeno nel distacco ironico da quelle spirituali, che non nego di possedere, altrimenti peccherei di quell’altro genere di altezzosità, così affine alla perniciosa falsa modestia.

Polly Jean Harvey è cool quanto può esserlo un soggetto sociale che sa collocarsi esattamente là dove desidera essere. Una figura soggettiva e dinamica che diviene facilmente desiderabile, perché spinge gli altri a raggiungerla, a identificarsi senza sostare a riflettere su un gap comunque incolmabile. Non per forza solo e semplicemente positiva. Un bagaglio pieno di significato e di significati proiettati, un essere (dis)umano smarcato, sempre avvolto nel mistero, e in perenne conflitto con la ribellione, l’individualismo, l’autenticità e l’indipendenza, come se autonomia e coolness fossero meccanismi tra loro indissolubili.

Assodato quindi che PJ Harvey sia cool, passiamo al resoconto di questo particolare evento, che ho avuto la fortuna di godere, proprio la sera del 46esimo compleanno di questa figura così esile e al contempo così forte. Una serata magica ed elegante, preceduta dal lungo codazzo di osanna e distinguo, soprattutto questi ultimi, conseguenti alla scelta di registrare le canzoni del nuovo disco alla Somerset House di Londra, luogo dove poteva essere vista per circa un’ora dal pubblico dietro una vetrata e a un lauto compenso (tutto è andato comunque sold out, giusto per ricordarlo ai detrattori).

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La meravigliosa cornice è quella della Royal Festival Hall, nel grande salone posto al 4° piano della Green Side. Su un divano nero al lato destro del palco, per noi che guardiamo, stanno seduti Seamus Murphy e il giornalista Anthony Loyd, cui spetta il compito di farsi raccontare la genesi dei singoli scatti che corredano il libro, “The Hollow of the Hand”, proiettate sul grande schermo assieme ad alcuni filmati. Al centro del palco gli strumenti che saranno suonati da PJ, dal fido John Parish e da James Johnston dei Gallon Drunk, fermi anche loro in religioso silenzio: una batteria, un organo, un mellotron, un pianoforte elettrico, una fisarmonica e un buon numero di chitarre elettriche (buon segno, questo, circa il ritorno a sonorità più rauche e rock, confermato poi durante l’esecuzione dei brani). Sulla sinistra, un microfono e un leggio, dove andrà Polly a leggere le sue poesie: una lettura calma, decisa, partecipe, lontana da qualsiasi enfasi fonetica o dizione manieristica.

Le poesie e le fotografie documentano i loro viaggi fra il 2011 e il 2014 in Kosovo, Afghanistan e a Washington DC. Murphy è una presenza imponente, secco e conciso; le sue storie e i filmati (parte di un lungometraggio che uscirà il prossimo anno, insieme all’album di PJ Harvey) illuminano le poesie di Polly e le sue canzoni.
Al di là del bellissimo libro e delle immagini, tutti siamo però qui proprio per le canzoni. Vogliamo vedere dove ci saprà portare ancora questa figura aggraziata, magrissima ma piena di fascino, finalmente svestita dai panni folcloristici e iconici di “Let England Shake”.

E il risultato intriga, passando dalle sonorità liquide del mellotron all’incedere onirico, grezzo e psichedelico delle chitarre, sostenute da una ritmica sempre marziale, a ricordare che è il paesaggio post bellico, con i suoi riflessi umani, l’anima centrale del progetto.
La prima delle due canzoni ispirate al Kosovo, “Chain of Keys” parla di bambini che potrebbero sparire “ora li vedi, ora non più”. Polly canta il suo viaggio umano in giro per il mondo, cercando di capire le radici della violenza e il risultato della stupidità: “The Wheel”, “The Orange Monkey”, “Dollar Dollar”, “The Community of Hope”, “Homo Sappy Blues”, “Medicinals”, “Near the Memorials to Vietnam and Lincoln”, “River Anacostia”, and “The Ministry of Social Affairs”, sono i titoli dei nuovi brani. Alcuni coincidono ambiziosamente con i titoli delle poesie.

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Gli applausi finali sono un tributo all’alchimia empatica che si è consolidata tra PJ Harvey e il suo pubblico, attraverso una musica vigorosa nata dalle macerie umane e da un materiale lirico desolante. E questa alchimia è decisamente cool: ti fa uscire dalla sala e attraversare il Tamigi rimandando di qualche passo l’abbraccio sotterraneo con la metropolitana che ti riporta a casa.
Lasciamo ad altri le riflessioni su cosa sia lo spettacolo, se fotogiornalismo, se marketing, se prodotto commerciale.
Noi guardiamo nel cavo della nostra mano, in cui abbiamo conservato quel molto che molti non vedono.