La cosa poetica. Nanni Cagnone.

a cura di Rosa Riggio

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Il mondo è barocco (lo diceva Gadda) e la poesia è quello che resta quando leviamo tutto ciò che non è necessario. Ma qui tutto è necessario. Quello che si scrive, o ha il definitivo peso della necessità, o non è. Povertà. Sonno. Comprensione. La tirannia di un verso che si pianta come “nel turbine”: la poesia di Nanni Cagnone. Nel mondo, non per dire cosa c’è, siamo, ma per dire quello che resta fuori, quello per cui non abbiamo nomi. Eppure, qualcosa, le cose, nella loro distanza o nella loro prossimità, si fanno luce, ma per dirci la maschera, il riverbero (insufficiente) di una verità. Cavità su cavità, il sogno costruisce un’architettura, notte su notte, arresa e invincibile. Tutto si sa, nel sonno e si dimentica. Come il tempo, i suoi passi silenziosi, la separazione e l’attesa. Ascolta la voce, la poesia è questa voce, quella che chiama a sé, approdo e fuga. E l’io? L’io resta indietro, nella trama, “quale oltraggioso ripercosso / grido”. 

Da “Il popolo delle cose” (1998).

Si può, con dolcezza,
dare un nome una volta ancora,
dire aria e vapore, festeggiare
l’alleanza, rammentare che
siamo il popolo delle cose,
e mentre è giorno incontrare
il disincanto. Poi la notte,
che per guarnigione
vuole un’altra lingua.

[…]

Perdute nella luce
ma poi son cose sgombre,
e buie vicendevoli
contrade, come
similitudini. Che ne sarà
del folto meraviglioso,
della confusa prossimità,
dell’arcano dentro
di chiunque? Che ne sarà
della notte? Quali voci?
[…]

Mai non segue – un poeta –
luci vere, ma stanchi cenni
da maschere.
[…]

Non sarà – il passato –
questo sonno, nel quale
verso noi comincia ora
qualcosa? E quell’attesa
che si dice avvenire: non è
una distanza pianeggiante,
ove preme avverarsi
ogni incompiuto andare?
Quel che ci separa dalla spina
ferma nel suo rovo: è questo
il tempo? Qualche passo?
Se chi dorme avesse nel dormire
un atto del presente, quali sogni?
 

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