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La rivolta – Lucio Mastronardi
Frecc bestia quella sera. Vigevano. Metà degli anni settanta. Da Milano, alcuni caporioni, vengon giù in provincia con in testa nientemeno che la Rivolusiòn. In quel salone, ragazzotti e barbe nere, ci si ammucchia, ci si scalda. Si è in tanti per davvero. In tanti e molto avanti. Avanti è l’avanguardia delle sterminate città operaie. Che ovvio una via al Comunismo prima o poi la troveranno. Quella sera di questo si deve parlare. Non a caso a Vigevano. La capitale della scarpa italiana, europea, mondiale. Settantamila abitanti: novantacinquemila para de scarp fatte in un giorno! Più tacchi che teste. Vigevano, sì. La Stalingrado della Lomellina. Con il Partito Comunista al quarantasette per cento e Armando Cossutta, il sovietico di ferro, senatore del collegio. Buon terreno. Per gli arrabbiati. I sanculotti. Quelli fuori e a sinistra del Partito. I rivoluzionari. Carta che urla: Lotta Continua, il Manifesto, Il quotidiano dei Lavoratori.
Inizia l’assemblea. Le parole sono vespe impazzite che ronzan tra le gonne, le chiome bisunte. Pungono là dove gli ormoni giovanili usmano il tanfo del pestifero Tenaciu, la colla industriale che impatacca le suole al corame. Ne sono rinciucchiti. Per cotanto ardore produttivo, la nebbia si tinge di giallo, il sangue rimesta gramizia e vendetta. Il salone è una nave che alla fine della Storia, colta da bufera, barcolla, si sfalda, ribolle di furenti ammutinati.
Seduto, in mezzo al can can del tentato assalto al cielo, siede un ometto di mezza età.
C’è chi dice puzzi di amaro, il Negroni, per intenderci. E’ il Lucio. Il Lucio Mastronardi. Al maestar. lo scrittore. Lo squilibrato. Lucio al matt. Ad un tratto, proprio lui, alza la manina. Chiede ad alta voce che gli sia data la parola. Vuol dire la sua. Qualcuno storge il naso, si tocca le balle. Tra i più buoni, c’è chi ridacchia. Tutti pensano: “e adesso cosa dice il Lucio?”. S’impone il silenzio. Parla lui.
“Scusate, compagni, volevo solo dire una cosa. Solo una. – Sibila sbìrolo – Tutti questi vostri discorsi sono davvero inutili…”
Gelo siberiano. I caporioni sgranano gli occhi, qua e là cigola qualche risatina soffocata.
“Datemi retta. Il Comunismo – arringa il Lucio – non ci sarà mai! Mai! E sapete il perché?”
Alza il braccio. Gonfia il petto. Il Lucio ha il senso della teatralità storica. Alla Lenin, alla Petrolini.
“Perché gli operai vogliono diventare come i borghesi!!!Ecco perché!!!”
Apriti cielo! Carambole di fischi. Vaffanculo traditore maledetto! Lucio si incazza. Sommerso dalla canea, blatera, urla. Vorrebbe ancora parlare, forse spiegare. Ma va là! Sfinito, si arrende. E’ allora che un’anima pia lo raccatta sottobraccio, gli spiega che forse non è il caso, lo accompagna fuori.
C’è stato un momento in cui, questo nostro paese, ha avuto in sorte una genia di profeti. Ovvio: derelitti. Son fioriti tra milioni di carabattole, cianfrusaglie, feticci di quell’insorgenza produttiva, quel delirio di ricchezza, che va sotto il nome di boom industriale. Lucio Mastronardi, scrittore morto suicida nel 1979, autore de – Il maestro di Vigevano – (e altro…), ne ha svelato l’ignominia, il ghigno oscuro, quello stesso che in quegli anni ha fatto di Vigevano il laboratorio sociale dell’ipotesi ultima: conquistare il Valhalla del consumo. Come a dire che tutto, l’ammasso delle idee, delle parole vane e vuote, Libertà, Comunità, Eguaglianza, lì era di fatto indirizzato. Lucio aveva visto là dove gli altri si rifiutavano di fare. E’ stato il tragico testimone di un radicale mutamento di vita che, una brancata di anni appena, in una sorta di impazzimento collettivo, ha colto Vigevano, paradigma dell’Italia intera. Diligenti battaglioni di umani, famelici, non han guardato che ai soldi e nulla è più importato loro se non quelli. Nessuno, al pari di Mastronardi ha colto con pari tragedia il mutamento indotto da quei tempi. Ci han provato, in parte riusciti, Bianciardi, Calvino, Piovene. Lo ha detto Pasolini. Nessuno, con pari, estetica e letteraria, tragicità. L’onnivoro ventre del consumo ha infine partorito una razza mutante di borghesucci per cui davvero omnia cosa si misura con il danaro; per cui davvero l’unica e sostanziale preoccupazione è l’accumulare soldi: da investire in beni visibili, automobili di riguardo, case di pregio, sperperarli in consolatori paradisi artificiali, vacanzieri, di cui poi raccontare e farsi vanto.
Ogni cosa, che altro non fosse il denaro, si è allora ridotta a lerciume. La scarpa portava i soldi. Quindi, tutti a fà di scarp. La devastante speculazione edilizia, l’ostentazione degli arricchiti, la fine delle autonome espressioni culturali, del dialetto, sacrificati sull’altare di un’istruzione di massa al servizio di una media risultanza di media cultura, il disprezzo verso tutto ciò che non era merce, merce e danaro, hanno decretato il definitivo de profundis dei modi di vita tradizionali. Alienazione, sradicamento: si dice così? Con bisturi inciso nella vivida carne del paesaggio ambientale ancorché umano. L’ideologia dell’inarrestabile processo produttivo si è visivamente concretizzata nella città infinita, la metropoli delle desertificazioni umane, a cui moltitudini di obbedienti formichine sono state di fatto costrette, obbligate. “Marcovaldo sentiva la neve come amica, come un elemento che annullava la gabbia di muri in cui era imprigionata la sua vita.” Questo dice Calvino, scopritore e amico di Mastronardi, del suo antieroe ne – Marcovaldo ovvero le stagioni in città -, agghiacciante compendio in forma di novelle dell’anonima, tristissima vita, di uno tra i tanti residui umani trascinati dall’inondazione dello sviluppo produttivo. La vita imprigionata, già. La sostanziale, definitiva, negazione della Libertà. Quella stessa di cui parla Luciano Bianciardi, anch’egli amico di Lucio, nella sua – La vita agra -.
E a tutto ciò non vien dato rimedio. Parrebbe non lo si possa più dare, se non in termini di personalissima, eroica e squinternata, rivolta. “Non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-social-divertentistica italiana.- Dice il Bianciardi -La rivoluzione deve cominciare in interiore homine. Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.” Giusto. Lucio Mastronardi come antivalore di un Sistema, che oggi si traduce negli algoritmi della competizione tecnologica, la negazione di fatto di cosa fare della propria vita. Una vita liberata dalla gabbia del consumo, dell’avere, dai valori di un empireo dirigenziale, meritocratico, efficentista, verso cui è dovere sacrosanto levare il piede nell’atto di una solenne pescia’ in del cuu.
Scrivo questo setta giù su una panchina di periferia, mentre unghiuti individui alla guida di un Suv ultimo modello mi sfrecciano davanti. Penso al Lucio. Alla sua profezia. Penso che scrivo, parlo chiaro. Ciò mi basta. Penso al Lucio. Che aveva visto dove gli altri non han potuto, non han voluto. Han faj finta de nient. Poor fioeu, poor num.
Luis Balocchi
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