La sfinge e la condanna della ripetizione. Paolo Febbraro. I grandi fatti.

La Sfinge e la condanna della ripetizione.

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Paolo Febbraro
I grandi fatti
Pendragon 2016

Paolo Febbraro, poeta e scrittore, ha raccolto in un piccolo libro, “I grandi fatti” (Pendragon 2016), riflessioni scritte dal 1994 al 2015. Si tratta di storie brevi, aforismi, di lampi (che aprono la seconda sezione). Il titolo deriva da un’opera storica, composta da brevi fascicoli, sui cento avvenimenti più importanti del XX secolo che amava leggere tra i tredici e i quindici anni. È dunque la Storia la protagonista, la verità che sta nel fatto, nell’essere stato? Ad aprire il racconto dei “fatti” è un enigma, su cui Febbraro costruisce la propria dichiarazione di poetica. Siamo sicuri che Edipo abbia davvero saputo rispondere all’indovinello della Sfinge? Reinventando il mito (dunque, la storia, il suo atto di nascita), Febbraro ci dice No, Edipo non seppe rispondere, proprio come tutti coloro che l’avevano preceduto. Fu la Sfinge che, annoiata, nauseata dall’incapacità dell’uomo di leggere le metafore, diede, sospirando, la soluzione. Sembrerebbe una liberazione, fu invece una condanna. Inventare storie lo è. La Sfinge non lascia speranza e, ad Edipo che ringrazia, stordito, risponde:

“Non ringraziarmi” replicò brusca la Sfinge, “lo faccio per inimicizia. Inizierai una nuova storia, ma cominciando con una finzione. Sei condannato a ripeterla, come ho fatto io per secoli con la mia domanda, sciocca e fondamentale. La tua vita sarà un teatro, con le parole di fuori diverse da quelle di dentro. Suderai per avvicinarle. Raramente vi riuscirai, e allora ti ricorderai di me”.

Finzione e verità, dunque, coincidono ed è attraverso la finzione (è così da sempre) che possiamo dire la verità.
“La verità è una somma, ed è impossibile escluderne qualcosa”.
Della verità, grande e piccola, qui c’è una somma composta da frammenti, perché è la realtà stessa che può essere colta così, non altrimenti.

“Una comunicazione vera si basa sull’interruzione e sull’intermittenza. Se è continua e rilucente, la parola non comunica altro che sé stessa, è bidimensionale, semplice pronuncia, non mette radici neanche in chi la usa. L’emozione, invece, produce rumore e crea distorsioni, cavità, corpi solidi e sondabili.”

In questo labirinto di voci e corpi solidi, che fa pensare all’Aleph di Borges, si incontrano Dante, Caino, Samsa (il padre di Gregor, trasformato in un uccello enorme, quasi a ricomporre lo stupore e a ‘normalizzare’), Kafka, Proust, Abramo. O i nazisti, su un treno, fantasmi reali che discutono su come rendere economico il terribile preparato. La normalità gigantesca, resa con la lentezza di un fotogramma da guardare ad occhi bene aperti. Frammenti, ipotesi di realtà, scritture che sono potenziali romanzi. Un rigo è forse strappato ad un ipotetico racconto che non verrà mai scritto, ma che, da solo, suggerisce un mondo, personaggi, vite.

“La amava a tal punto che spesso se ne dimenticava.”

Anche ciò che non accade è reale, né più e né meno di ciò che accade. Su entrambi i volti Febbraro getta uno sguardo candido, aperto, non ingenuo.
Entriamo in questo libro di sguincio, guardando le cose da diversi punti di vista. Non solo il vedere, ma anche l’essere visti ci restituisce a noi stessi. Ma in perdita, sparsi.
“Passeggiando per il centro di Roma, entro di sguincio nelle foto che decine di turisti scattano davanti a S. Pietro o al Colosseo. Là fuori, in chissà quanti scatoloni o computer sparsi per il mondo, c’è un’immagine di me che cammina da decenni.” E, poi
“Da sempre costruiamo castelli e non sappiamo il vento, il sasso, il topo.”

Su questo non sapere costruiamo le nostre storie. Queste di Febbraro sono oniriche, hanno la mitezza della distanza, lo sguardo disincantato di chi gioca a dadi con la piccola e la grande storia, sapendo che l’io è insufficiente e che raccontare aggiunge vita alla vita, magari sono solo dieci anni di vita, ma da poeta (come nel micro-racconto dal titolo dantesco “Vita nuova”). E non è poco, anzi, può essere tutto.

Rosa Riggio