L’atto di vedere la musica

Che cosa rende il bambino diverso dall’adulto, se non l’inconsapevolezza di essere bambino e quindi lo sguardo sulle cose? “…Quando il bambino era bambino non aveva opinioni su nulla, non aveva abitudini, sedeva spesso con le gambe incrociate e di colpo si metteva a correre, aveva un vortice tra i capelli e non faceva facce da fotografo…”.
Era fame insaziabile d’immagini e di suoni: guardare un film a gambe incrociate, ascoltare musica con un vortice tra i capelli. Eravamo pellicole vergini ad alta sensibilità, pronte ad assorbire tutto. Non sapevamo cosa fosse fare una faccia da fotografo (e nel caso, da adulti, avremmo cercato di dimenticarlo).

Alice in the cities

Non è questo ad averci salvato la vita?
Per dirla con Wim Wenders (che la disse con i Velvet Underground): “Il rock’n’roll mi ha spinto incontro a tutto, mi ha portato a fare cinema. Senza il rock’n’roll io oggi sarei un avvocato e molti sarebbero qualcosa di diverso. Credo che il rock’n’roll abbia dato a tanti per la prima volta un senso d’identità, perché più di ogni altra cosa si avvicina alla gioia. Se non fosse stato per Chuck Berry, Gene Vincent, gli Everly Brothers o Eddie Cochran, non avrei mai conosciuto quel gran desiderio di crescere, per poter essere abbastanza grande da riempire da solo quel jukebox. Senza questi primi rock’n’rollers non avrei passato la mia gioventù nelle gelaterie o sui prati, non avrei speso le mie notti ascoltando Radio Luxembourg tenendo un vecchio apparecchio a transistor sotto il cuscino. Il rock’n’roll mi ha fatto sopravvivere alla dolorosa età della pubertà. Ha dato un punto focale ai miei vaghi ma intensi desideri. Grazie al rock’n’roll ho cominciato a pensare all’immaginario, alla creatività uniti alla gioia: l’idea di avere il diritto di godere di qualcosa”.

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Per la precisione, quindi, ci ha salvato lo sguardo che abbiamo saputo rivolgere alle immagini della musica. La comprensione di un riverbero interiore, che il regista di Dusseldorf descrive così: “Un atto che è percezione e verifica del reale, ovvero un fenomeno che ha a che fare con la verità, molto più del pensiero. Per me, vedere significa sempre immergersi nel mondo. Pensare, invece, prenderne le distanze”.
Anche un altro grande regista tedesco, Herzog, richiama l’esperienza interiore quale momento di comprensione della verità. “Sono sempre stato interessato alla differenza tra ‘fatto’ e ‘verità’. E ho sempre sentito che esiste qualcosa come una verità più profonda. Esiste nel cinema, e la chiamerei ‘verità estatica’. È, più o meno, come in poesia. Quando leggi una grande poesia, senti immediatamente, nel tuo cuore, nelle tue budella, che c’è una profonda, inerente verità, una verità estatica”.

Verità estetica e verità estatica, alla stregua di guardare e vedere.
Atto volontario, il guardare non porta di per sé alla comprensione dell’oggetto, poiché chi guarda, intenzionalmente rivolge all’oggetto solamente gli occhi, ma ancora non ha compiuto il percorso verso la comprensione dell’oggetto stesso. Ne rimane distaccato, lo analizza, lo esamina, non ne viene coinvolto. Il passaggio a comprendere, percepire con la pienezza di se stessi, prendersi la responsabilità della conoscenza che si è percepita attraverso il guardare, avviene quando vediamo un oggetto.
Di fronte a un pubblico di architetti, durante un convegno a Tokyo nell’ottobre del 1991, Wenders riprende il pensiero della funzione salvifica dello sguardo puro dell’infanzia, invitando la platea a pensare il lavoro di costruttori di città come “creazione di luoghi futuri per i bambini, che andranno a forgiare il loro mondo di immagini e desideri”.
Li invita, cioè, alla consapevolezza di una rinascita, che chiede di fare della propria vita la restituzione di un dono ricevuto. Attraverso la creazione di arte, o nel semplice farsi “cassa di risonanza”.

Far Away, So Close! (1992/93)

Ma come si vedono le immagini della musica? Come si guarda la musica per poterla vedere?
Wenders riflette sull’argomento all’epoca in cui ancora non si è cimentato professionalmente con le immagini, ma le descrive da critico cinematografico (sui generis) per la rivista “Filmkritik”, tra il 1969 e il 1971. In primis, prendendo consapevolezza del proprio ruolo di narratore di immagini viste. “Non ho un metodo critico, né altri criteri tranne la VERITA’. Non una qualche ‘verità obiettiva’, solo la verità dell’esperienza: guardo i film davanti allo schermo e divento, nello stesso tempo, consapevole di me stesso”.
Un concetto che, vedremo poi, l’autore ha applicato nel far vedere la musica, indicando una via per poterla comprendere, vedendola. Una lenta consapevolezza tradotta in stile.

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Se pensiamo al ‘guardare’ la musica come viatico per poterla ‘vedere’, oggi possiamo considerare un duplice processo esperienziale, non privo di inciampi.
Da un lato, l’atto fisico di assistere direttamente a un evento musicale; dall’altro, le occasioni in cui guardare chi suona è un gesto mediato, arricchito o inquinato, da chi ci offre la propria prospettiva, fornendoci le immagini: il filmato di un ‘live’, una trasmissione televisiva, un videoclip.
Se vado a un concerto, la libertà di guardare con occhi nudi è messa a rischio da chi mi sta davanti brandendo lo smartphone, impegnato a catturare immagini di qualità mediocre che forse non guarderà mai più e che al massimo potrà esibire come trofeo a testimonianza della presenza a un evento al quale, per la verità, non ha mai assistito. L’interferenza può arrivarmi anche dagli schiamazzi di chi mi sta dietro, mentre gareggia in decibel con l’impianto di amplificazione narrando a qualcuno le proprie epiche gesta settimanali, alla stregua di un grido di guerra.

Anche guardando la musica attraverso delle immagini vivo una sorta di deformazione e paradossalmente potrebbe accadere proprio dal vivo, osservando le riprese sui megaschermi piuttosto che guardare direttamente chi suona sul palco. E’ innegabile che si fatichi oggi a dare medesima dignità alla musica e alle immagini, perché la nostra è un’epoca che utilizza le immagini in modo ipotipotico, tanto che la musica sembra avere la necessità di essere sempre mediata da queste, per poter essere ‘ascoltata’.

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Wenders affronta il concetto in alcuni articoli dell’epoca. Eccolo, in positivo, nella recensione di un film di Godard sui Rolling Stones: “La concentrazione con cui Mick Jagger canta, afferra il microfono, muove la bocca, è la stessa con cui la macchina da presa mostra i Rolling Stones con carrelli e zoomate quasi impercettibili. Lo sguardo dell’obiettivo è guidato da una fascinazione visiva, tanto intensa che si trasforma in ASCOLTO – una macchina da presa che INIZIA a sentire, è tutta orecchi, che, rapita da tale fascino, smette di mostrare. Sta là e dimentica totalmente che essa vuole solo stare a sentire, e si allontana in panoramica dagli Stones per andare a zonzo nel retro dello Studio dove qualcuno, separato dai musicisti da una parete scorrevole, batte il tempo a occhi chiusi”. (One Plus One, luglio 1969).

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In un successivo articolo ne rovescia la prospettiva con una sferzante critica: “I film musicali sembrano un teatro di battaglia. Nessuno ritiene che valga la pena riprendere, semplicemente, in tutta calma il gruppo che è sul palco e che fa musica. E così i cameraman si scatenano in zoomate e panoramiche. Anche i miseri resti della loro furia devastatrice non vengono risparmiati: li si frantuma ulteriormente con il montaggio. Di solito i film musicali non sono altro che attestati di incompetenza, insofferenza e disprezzo”. (Monterey Pop, agosto 1970).

Poche settimane dopo, rincara la dose: “La maggior parte dei film sulla musica rock procede in modo simile ai cinegiornali. Mostrano più il loro disinteresse, la loro disapprovazione o addirittura il loro disprezzo che non l’oggetto stesso. Quello che c’è da vedere, ossia i musicisti, gli strumenti, il palco, il lavoro, il piacere o la fatica di suonare, si considera che non valga la pena di mostrarlo così com’è… La maggior parte dei film sulla musica pop, pretendono di conoscerne il ‘linguaggio’. Come quelle persone che ridono ad alta voce delle barzellette proprio perché non le hanno capite e si appropriano di questo linguaggio o di ciò che ritengono tale e immediatamente lo spacciano per proprio… Vogliono riprodurre la tensione di un tipo di musica: lo zoom scatta avanti e indietro con un ritmo nevrotico. Ma proprio perché non è un movimento di macchina bensì una caricatura, l’immagine, degradata a ingranditore, perde tutta la sua forma e profondità, e non resta altro che il dolore di una ferita che viene continuamente aperta e richiusa”. (Un genere che non esiste, Settembre 1970).

Se questa visione può apparire troppo intransigente, capovolta in seguito dalle inevitabili contraddizioni mostrate dal Wenders cineasta quando ha utilizzato a sua volta la musica per mediare o creare le proprie immagini, occorre contrastare i pensieri per un istante (…Quando il bambino era bambino lanciava contro l’albero un bastone come fosse una lancia,che ancora continua a vibrare).
La riflessione sul vedere la musica è certamente più complessa dell’esito di un giudizio sommario: coinvolge per intero la sensibilità di ciascuno, almeno quella di chi riconosce di essere stato salvato dalla musica, o è ancora in tempo per farlo.

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Lo spunto di questa riflessione mi è venuto proprio spulciando tra i primi cortometraggi di Wenders. C’è un breve filmato del 1969 in cui il futuro regista sta semplicemente dietro una macchina da presa che riprende i Ten Years After, nell’omonimo film dell’amico Mathias Weiss. Alvin Lee e soci stanno provando brani di Willie Dixon e Lightnin’ Hopkins. La cinepresa è immobile per tutti i 45 minuti della durata: l’autorevole operatore quasi non la tocca, pur firmando le riprese.
E’ assurdo, mi sono detto, non può essere casuale. Un critico con alle spalle alcuni cortometraggi dedicati alla musica, così capace di svuotarsi per poter offrire solamente il proprio pensiero, la propria sfida, nel desiderio di restituire vita alla musica dopo che la musica l’ha restituita a lui: per forza ci sta dicendo qualcosa di più profondo.

Occorre, infatti, dedicare al filmato un paio di visioni prima di rendersi conto della potenza trasformatrice del dono che ci viene offerto di poter guardare la musica con i propri occhi senza che nessuna mano possa interferire, orientare o divertire uno sguardo che, lentamente, diventa movimento interiore. Atto di vedere, atto di guardarsi dentro e, finalmente, ammirare la trasformazione (in atto) nel musicista, negli strumenti, nell’audience che nemmeno viene ripresa. E in noi. (“…Quando il bambino era bambino non sapeva di essere un bambino, per lui tutto aveva un’anima e tutte le anime erano un tutt’uno”).

Il 1969 è l’anno della rivelazione: Wim Wenders ha 24 anni quando gira “Alabama: 2000Light Years”, suo sesto cortometraggio, omaggiando “All Along The Watchtower”. La versione originale di Dylan fornisce l’incipit, quella di Hendrix lo conclude. E’ dello stesso anno il corto “Drei Amerikanishe LP’s” (prima collaborazione con il “bambino” Handke): i due trascorrono quindici minuti in automobile guardando fuori dal finestrino mentre dissertano sui Creedence Clearwater Revival, John Harvey Mandel e Van Morrison (l’irlandese che guarda all’America di Astral Weeks).
L’anno successivo esordisce su lunga distanza, e come lo fa? Facendosi regalare dalla musica addirittura il titolo. “Summer in The City” è, infatti, pescato dall’omonima canzone dei Lovin’ Spoonful, parte della colonna sonora. Il film, come dirà il regista in seguito, non fu che un pretesto per portare in scena la propria playlist del momento (presenti i Kinks in gran spolvero, con un ringraziamento speciale a Ray Davies nei titoli di coda. Poi Dylan, Gene Vincent, Fats Domino e i Troggs).