Lauriane T. Cucire la morte addosso

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In classe Lauriane è sempre sorridente, mi dice che è felice di imparare a leggere e a scrivere, lei che da bambina non è mai andata a scuola nemmeno un giorno. A conclusione dell’anno scolastico le sue parole sul foglio hanno finalmente una forma, anche se un poco sghemba, e a volte mancano delle lettere, perdute forse tra le lingue che mescola insieme quando la voce va più in fretta del polso. Quel giovedì l’invito è di scrivere tre righe per dire qualcosa di sé, si chiama produzione scritta, un compito assai difficile, temutissimo, ma lei non si scoraggia e con la sua grafia infantile si presenta. Conosco già la sua età, trentacinque anni, e anche il suo paese d’origine, la Costa D’Avorio. Leggo che è arrivata in Italia un anno e sei mesi fa ed è serena, adesso. E poi mi imbatto in quella frase apparentemente indecifrabile. Scopro così di sua figlia, mentre cerco di decodificare una parola che assomiglia a “cucire” e le chiedo che cosa significa, che cosa voleva scrivere. Quando ho capito di cosa stava parlando, mi sono sentita male. Perché si possono leggere articoli vedere foto essere perfettamente informati sull’argomento, ma se una giovane donna senza una lacrima prova a spiegarti che sua figlia è morta dissanguata mentre la cucivano “lì sotto”, “tra le gambe”, è difficile non rimanere scossi. In quel momento non ho fatto domande e non ho aggiunto altro, ma la settimana successiva ho chiesto a Lauriane di fermarsi dopo la lezione. Ho chiuso la porta e lei ha intuito subito, credo, che stavo provando a tracciare uno spazio accogliente tra me e lei, che si chiama ascolto, e assomiglia un poco a un nido, ma anche a una distesa di sabbia bianchissima. Le ho chiesto se voleva condividere la sua storia, che avrei voluto farla conoscere, renderla pubblica, in forma anonima, se preferiva. Non è facile raccogliere le storie di vita dei richiedenti asilo, se ancora non si sono presentati davanti alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, perché hanno il timore che qualsiasi cosa dicano potrebbe compromettere l’esito di quella udienza, da cui dipende tutto il loro avvenire. Così Lauriane ha accettato di raccontarsi, avvertendomi che non avrebbe potuto rivelare tutto, e ha chiesto di usare un nome altro. Quale nome vuoi che scriva al posto del tuo? Quello di mia figlia, ha risposto senza esitare un attimo: Lauriane T.

Mio padre appartiene all’etnia Yacouba [Dan]. Quando ha sposato mia madre, che invece era di etnia Bété, sono andati a vivere nel villaggio di lei, e lì sono nata io. Mia madre è morta di parto quando avevo otto anni. Mio padre allora mi ha affidato a un uomo del villaggio che era come suo fratello. Lui non mi ha mai mandato a scuola, mi teneva in casa a lavorare. Quando ho compiuto undici anni mi ha dato in sposa a un vecchio, io ero la sua quarta moglie, la più giovane. Mi picchiava sempre. Dopo qualche tempo sono rimasta incinta. Ho partorito due gemelli. Mio marito mi ha preso il maschio per farlo crescere alle altre sue mogli. Io allora sono scappata insieme a mia figlia. Sono stata in villaggi diversi. [Lauriane non vuole raccontare che cosa ha fatto esattamente in quegli anni, né dove sia andata di preciso. Accenna che viveva senza lavorare, mangiava quello che trovava, non aveva una casa fissa. La sua narrazione fa un salto temporale di oltre un decennio]. Quando mia figlia ha compiuto quindici anni ho deciso di andare a vivere da mio padre, nel suo villaggio. Nella cultura di mia madre non si cuce lì sotto, a me non l’hanno fatto, ma nel villaggio di mio padre è tradizione. Allora io e mia figlia, per vivere in quel posto, dovevamo farci cucire per forza. Ci hanno portato nella foresta e hanno preso prima mia figlia. Lei gridava, poi ho visto tanto sangue, sono andati a raccogliere delle foglie per medicarla, delle foglie che servono per fermare il sangue. Ma lei gridava forte e non smetteva di sanguinare e poi è svenuta. Allora l’hanno lasciata morire, perché non si poteva fare più niente, così hanno detto. Quando ho visto questo io sono scappata via, sono andata via dal villaggio e poi dal paese, perché mi massacravano se raccontavo a qualcuno come avevano ammazzato mia figlia.

[Nel suo racconto Lauriane parla solo di “cucire”, senza entrare nel merito. Cerco allora di capire quale tipologia di mutilazione genitale è in uso in quei villaggi, perché ce ne sono di quattro tipi diversi* e chiedo anche chi la pratica e soprattutto perché.]
Nei villaggi sono le donne vecchie che prendono le ragazze e le portano nella foresta per cucirle. Gli uomini non dicono niente, sono d’accordo, ma è una cosa di donne. Si taglia solo il pezzo di carne sopra [la clitoride, si tratta di mutilazione genitale del secondo tipo] perché sai, così quando vai a letto con gli uomini non senti niente. Ti sposi e resti sempre con tuo marito, non vai a cercare altri uomini. Se tu non fai questo non sei buona per loro, non puoi trovare marito. Io ho lasciato tutto questo in Costa D’Avorio, e ho pianto tanto che ora non ho più lacrime. Non scendono, anche se voglio. Ho lasciato tutto lì, adesso in Italia sto bene, sono come un’altra persona. Sono felice a scuola, ho imparato a scrivere il mio nome e quello di mia figlia.

A cura di Silvia Rosa

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