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Le poesie di sabbia e d’acqua di Mario De Santis (di Rosa Riggio)
Le poesie di sabbia e d’acqua di Mario De Santis
(di Rosa Riggio)
Mario De Santis, “La polvere nell’acqua”, Crocetti 2012.
Nei versi nomadi di Mario De Santis, il tempo scorre gemello solo se si capovolge una clessidra e la sabbia, “nomade per secoli“, è una forma screziata nell’acqua, una luce. Le città (Tel Aviv, Genova, Amsterdam, Napoli, Lisbona, Barcellona) si danno il cambio, come il giorno e la morte. Vede guerre e alluvioni la sabbia e naviga insieme all’acqua, “che non ha spessore, che non è diretta, / porta il suo ritmo verso il niente”. Porta con sé desiderio e costrizione, libertà e confini. Sabbia di mappe mutevoli, che disegnano un futuro fantasma, quando ciò che resta del terremoto in Iran è “Una foresta immobile di tavoli spezzati” o “l’ombra / che resta sola a dire il vero” è l’unica testimone della strage di Bologna. Sabbia che è polvere solitaria, in case disabitate, dimore casuali, distanti, dove scoprire “per caso i fossili preziosi / o porte aperte in un cortile, e pace in un rifugio / per il sonno”. La polvere nell’acqua raccoglie le forme disciolte e provvisorie della Storia (è il poeta stesso che ci consegna, nella nota finale, una chiave di lettura); forse perché questo nostro tempo (di alluvioni, di buio, senza appigli) è “rifugio occasionale” e, infine, “nemmeno tempo”. Quando le città, nella notte, si dissolvono, portando con sé “il male fatto e il male inascoltato”, si cerca ancora “un punto di riposo, qualcosa di invisibile / un muro cieco, nuovamente”. Di questa cecità e di questo buio, del peso che ci rende spaesati, siamo portatori assenti, testimoni di un annuncio che non si compie. Disastri di natura o crimini, guerre o attentati ci raggiungono dicendoci l’inferno, la forma di un futuro fantasma. Mario De Santis dice senza nominare la verità delle nostre colpe umane. Restano gli odori e i rumori delle nostre finzioni, di ciò che mettiamo in scena, finzioni riflesse nello schermo delle nostre case, dove diventano “due volte niente”. “La vita è oscena anche per questo, perché contiene davvero come una clessidra un’altra vita che l’avvelena, l’invade, ed è la stessa, una sabbia nomade per secoli, che adesso segna le ore imprigionata, ore vaste in cui mi sento perso, io stesso una polvere senza confini, né vie.” Alla fine, capovolta la clessidra, nasceranno ancora fiori nella polvere, velenosi? Questo si chiede, infine, Mario De Santis, ma non c’è risposta. Allora non resta – come scrive Arsenij Tarkovskij – che accendersi postumi, come una parola? E’ la parola della poesia che si accende, luce screziata, come l’impronta della polvere nell’acqua.
Rosa Riggio
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