L’inseguitore di Cesare De Marchi (Mondadori, pp. 211)

L’inseguitore di Cesare De Marchi (Mondadori, pp. 211)

Gradevole, sgradevole. Due aggettivi antonimi che ricorrono, o uno o l’altro, in quasi tutte le pagine del romanzo.

Non a caso, se la senilità contiene la sgradevolezza del rimpianto; la rassegnazione della precarietà; l’impossibilità di pianificare il futuro perfino nel campo dei sentimenti; l’oppressione della solitudine.
Ma, se si reagisce all’inerzia del distacco sterile, all’acquiescenza infruttuosa, si apre una breccia per delle novità piene, appunto, di gradevolezza. Come l’amore reale, vissuto con intensità, finanche con gelosia, con un trasporto sessuale inatteso. Come la scoperta dell’amicizia, intesa non più esclusivamente in senso utilitaristico (mero sfogo delle proprie frustrazioni), ma come disponibilità all’ascolto, alla comprensione, apertura verso l’inedito ricordo condiviso, verso la scoperta del sottaciuto.

Tuttavia, da uomo maturo – dopo quarant’anni di un lavoro non amato, giunto alla libertà enigmatica del pensionamento – possiede davvero un senso la decisione di Karl, il protagonista, di trasformarsi in un «inseguitore del tempo perduto» (p.18), se ciò che conta, dal punto razionale ed effettivo, è il breve futuro da non sprecare, da non lasciare bloccato nella tenaglia della noia, da rendere indipendente dal «presente instabile e inconsistente» (p.139)?. Ma sarà possibile se con lucidità si riconosce il proprio viso in un teschio dell’ossario di Michaelskirche? Se i brandelli del tempo perduto, illusoriamente recuperato, si raccolgono «dentro un cranio la cui materia vivente di lì a qualche anno si sarebbe dissolta» (p. 159)?

Non c’è niente da fare, a una certa età il futuro è schiacciato sul presente. Gli amici coetanei, benché apparentemente vitali, da un giorno all’altro si ammalano e muoiono. Un’amante giovane, sebbene sul serio innamorata, non riesce a offrirsi totalmente, rimane nel cono d’ombra di un’evanescenza inappagante destinata prima o poi a scomparire bruscamente senza mai rivelarsi nella sua completezza.

Ma da anziani nulla è fonte di cruda disperazione, visto che ormai si è compreso che la felicità è «una semplice proiezione della fantasia» (p.111), è soltanto «la sensazione di un momento, impalpabile e improvvisa […]: niente di saldo, niente di costante; imprevedibile, gratuita; qualcosa che» si può «solo ricevere, ma non conseguire e trattenere» (p. 134),

Mai cadere nell’ingenuità di confondere il narratore con l’autore. È una regola basilare della narratologia. Ma forse Cesare De Marchi concorda con il punto di vista del narratore se è vero che, con la sua prosa lucida e introspettiva, spesso nei dialoghi gli interventi di Karl sono sostituiti dal discorso indiretto. Come se gli altri personaggi fossero dei lettori immersi in un rapporto dialogico con l’autore.

Paolo Marati