L’Olivetti secondo D’Elia

a cura di Davide Zizza 

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[Il poeta dialoga con il suo compagno di scritture]

“La letteratura è provocazione”
Giorgio Manganelli

L’inizio, l’incomincio: il tocco, l’incipit del gesto, e da lì in poi lo stile. L’attacco è, per riprendere un titolo di Manganelli, un improvviso per macchina da scrivere.
Il picchiare sulla tastiera, anzi il ticchettare sulla Olivetti – perché in Italia la macchina da scrivere è storicamente l’Olivetti – e in particolare la famosa Lettera 22 di telaio basso color grigio/carta da zucchero, ovunque portatile, è un concerto diverso dal solito,interpreta cioè la “sonatina” di Mandel’štam, di cui D’Elia onora l’inizio della raccolta Congedo della vecchia Olivetti.
Per associazione d’immagine, verrebbe da ricordare il film Scoprendo Forrester: uno Sean Connery autore appartato appronta la sua sonatina, mentre sfodera consigli al giovane universitario e nell’andamento fonde rapidità e pause. Nel nostro caso l’approccio al tema da parte di D’Elia è più ideologico, evoca il suo rapporto con questo strumento non solo dal lato “melodico” – ma ne sottolinea il senso militante e impegnato.
La raccolta di poesia, di fatti, considera la sua Lettera 32 l’interlocutore privilegiato, attraverso le sezioni in cui è divisa l’opera sviluppa un romantico dialogo su argomenti di natura sia letteraria che quotidiana e sociale. Sentiamo l’eco puntuale dell’idea che si fa testo, l’ombra di quel dinamismo necessario quale è il ritmo di battitura ci rammenta, per parafrasare una massima attribuita a Catone, che le parole seguono a ruota dietro l’argomento, e l’Olivetti diventa fautore di questo movimento di libertà. Perché la parola scritta è un atto sovversivo, ci insegna il poeta Edmond Jabés, e la sovversione nella scrittura è il primo atto di libertà.
Pertanto si fa urgente il desiderio di recuperare uno squarcio sul tempo con uno strumento che ha segnato un’epoca. Il dialogo serve per trattenere la memoria, rispolverare un’antica confidenza mai passata con l’oggetto.
Sembra persino che la macchina da scrivere assorba l’umanità dello scrittore, quasi ne prenda la parola per dare a sua volta consigli, come in Altre istruzioni in cui l’imperativo diventa fondamento «L’impoetico: raccontalo a lampi» oppure in Libro-libero dove ascoltiamo «Leggi il libro che ti legge/Dentro come una sonda del pensiero» in quanto “Libro tu stesso vuol dire libero” (la consonanza mi fa ricordare il Philobiblon di Riccardo da Bury). Ma poiché la scrittura si cristallizza in una serie di fotogrammi ricavati dal passato, ecco che D’Elia ricorda maestri e amici, in primis Fortini («Lo sai? – a battezzarmi è stato/il poeta (allora inventore a contratto/Olivetti) Fortini – /uomo d’umore e riscatto»), Giudici («C’è nella poesia un destino – proprio tu/l’hai detto – che ci fa uscire dal mondo e rientrare/con la soavità di un animale»), Roversi (“che per passione al vero stretti//come Roversi Elena e Roberto/unisce valore e cortesia”) e Pasolini (“Lettere luterane, con una Lettera 22/ribattendo alle sorti italiane/poesie in prosa a spazio due/incredibile arma impropria spinosa”).
Dalla memoria all’impegno civile di scrivere il passo è breve perché, nel poema Voto d’aprile, si configura come “Etico star fuori, la testa nella notte,/non dormire, e al ronzìo dei bruciatori/in questa aria buia di aprile soltanto rischiarata/dei neon agli incroci giallastri d’ogni strada,/chiudere la finestra e sedersi a vergare/a matita queste righe, anche questo riuscire/prima di uscire è bene”: scrivere è civile perché denuncia l’inciviltà dei tempi e indica la Ginestra leopardiana come un esempio di chiara ideologia.
A fine dialogo il congedo (la cui sezione apre con i versi del grande Caproni tratti dal Congedo del viaggiatore cerimonioso) passa in rassegna personaggi e opere che hanno impresso un’immagine indelebile – Marylin, Proust, Fellini, Walt Disney, Petrolio di Pasolini. Un congedo che non intende sigillare del tutto il discorso in quanto la sonatina non arresta la sua toccata e fuga.  
 

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