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Ma ora il ricordo è flusso discorde – Carmelo Cutolo
Eravamo tornanti
verso Valle fiorita,
un eden che congiunge
la memoria ai colori.
Ma ora il ricordo è flusso
discorde e l’interrompe la parola
sulla soglia della dissoluzione.
Mi turbano le valli,
vorticano fiorite.
La luna debole remota vinta
sfiorisce nel pallore d’una nube:
tace. Gli ermetici sigilli schiude
-parola oscura, cratere lunare-
lampeggia, e dal profondo
pozzo colori vividi
odo: dal caos lo sguardo prende forma.
(Carmelo Cutolo, inedito)
È possibile riscontrare un radicamento nella tradizione, sia prossima che remota, nella parola di Cutolo: non si tratta di una questione tematica, che è anzi assolutamente aderente all’attualità dell’uomo e alle sue tensioni e inquietudini, ma di echi di gusto e di formazione, segnalabili, ad esempio, nella tendenza a un verso che realizza immagini, più che essere narrativo o descrittivo, o nelle scelte semantiche, formali e retoriche – non ultime alcune inversioni.
Il testo qui proposto, dal titolo Valle fiorita, trasfigura la dinamica dell’esistere, in particolar modo riferita all’identità di appartenenza, percepita come precaria, in relazione al ricordo e alla memoria, in immagini apparentemente serene, pacificanti, come quella di una valle incontaminata nell’ebbrezza della propria fioritura.
“Eravamo tornanti”, inizia Cutolo, identificando i visitatori “umani” con le strade, estranee all’ambiente naturale, e che nonostante ciò si intersecano ad essa; l’eden della valle “congiunge / la memoria ai colori”, intercettandone le dinamiche attraverso la propria bellezza. Tale ricordo è però “flusso / discorde”, e il conflitto interiore tra momento presente di accoglienza del mondo ed elaborazione della memoria viene “interrotto” – e tale interruzione sembra quella di un rito, violato nella sua sacralità – dalla “parola”: ciò avviene “sulla soglia della dissoluzione”.
È l’osservatore a dissolversi nella valle, il suo ricordo, la sua inquietudine turbata dal conflitto tutto umano? “Mi turbano le valli, / vorticano fiorite”: la pace dell’ambiente sembra stridere con la natura irrequieta di chi la testimonia, ingombrato da memorie e pensieri, dalla “parola”. La conferma dell’opportunità del silenzio in tale rituale è dato dall’immagine della luna, ulteriore personificazione di un uomo che riesce a diventare parte integrante della natura: essa è “debole” e “vinta” e finisce per sfiorire “nel pallore d’una nube”; ma soprattutto “tace”.
L’elemento sacro continua a ricorrere in “ermetici sigilli” e nel silenzio del satellite, che si fa “parola oscura” e allo stesso tempo, “lampeggia” (in un ossimoro dove luce e ombra sembrano alludere alla comprensione del mondo), fino a quando l’osservatore umano, “dal profondo” riesce ad ascoltare “colori vividi”: con questa sinestesia si realizza l’accesso pacificante al mondo naturale dell’altro-da-sé, che appare come “caos”, ma il cui sguardo, dopo un premuroso mettere da parte le proprie istanze individuali e umane, finalmente “prende forma”.
Una forma di accesso al mondo molto prossima, per quanto appaia paradossale, alla filosofia giapponese del novecento, che, partendo dalla cultura zen e rielaborando l’esistenzialismo, in particolar modo di Heidegger, è arrivata a concetti come il “conoscere-diventando” di Nishida Kitarō, che ha proposto l’idea di accedere al mondo e in generale a tutto ciò che è “altro da sé” dissolvendo l’inquietudine esistenziale e ridimensionando l’io fino a farlo svanire, consentendo una rinnovata conoscenza della natura, fino a diventarla, per risvegliarsi a un vedere senza vedente.
E in questo testo è possibile riscontrare, parallelamente, un’iniziale incertezza del senso di appartenenza dell’uomo alla natura, al proprio tempo, in relazione al proprio passato e presente, che riesce progressivamente, attraverso un procedimento rituale di incorporazione all’ambiente naturale, a realizzare una forma, vivida, dal caos – utilizzando immagini care alla tradizione occidentale.
Mario Famularo
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