Recensioni
Per me il Bruno Brancher è mai morto.
a cura di Luis Balocchi
Per me il Bruno Brancher è mai morto. Me l’ha detto anche lui, un giorno griso che l’ho incontrato alla Statale di Milano. “Mi moeuri no!”, io non muoio. Che fa in pari a quel “Mi parli no!” buttato lì dal Giorgio Strehler, appena dopo la guerra fascista, nel “Ma mi” resistenziale in coppia col Dario Fo. Un urlo sgangherato. Di chi sa che quando è nato l’ha figliato la disgrazia. E’ mai morto perché quel suo essere Brighella squinternato, nato da padre ignoto e madre compagna de la Ninetta del Verzee del Carlin Porta, mi traversa la vita dalle parti dove albergano i fantasmi. Che son tanti. Nel parlarci o lasciarli marcire dove sono, tutta qui la differenza. Col Brancher ci parlo ancora. Ecco sì.
Allora, inizi anni ottanta, io ragazzotto perdaball, lui con venti tacche di galera tatuate sul braccio di Rebibbia, San Vittore e altri ancora, ci si vedeva non di rado in una libreria di Porta Ticinese o, come diceva lui, Porta Cicca. E qui gh’è un’altra differenza. Con quella sua voce da grossista del catarro, il Brancher diceva proprio “Porta Cicca”. Al modo di tutti i vecchi milanesi come lui. Era nato prima della guerra, scuole poche e fatte male, primi furti, primi scazzi con la pula, riformatorio, strada, ringhiera, sànguis e dialetto. Voleva diventare un ballerino. Eh sì. Ma che scarogna quelle sue gambette corte e le cotiche sui fianchi, in aggiunta pure sguercio. Così, quando dalle parti del Vigorelli ha visto per caso quella bici lusenta a portata di mano, ha deciso di farsi corridore. La sera stessa sono andati a brancarlo nel cortile dove stava. Non in due, come da solita solfa. C’era tutta la questura ad arrestarlo! Per il furto di una bici? Sì. Proprio quella d’una bici. La bici del Fausto Coppi. Da lì in avanti non c’è stato santo che tenga. Uscito di galera, s’è messo a scorticare il piombo dai treni degli scali milanesi. Per rivenderlo e fà su qj pòch danee che bastavano alle ciucche e alla balera. Tracagnotto, sguercio e pure tartaglione, con quelle tronche milanesi che si slongavano all’infinito, impedendogli il comando, l’atto vocale perentorio. “L’è per quest che hoo minga faa i rapin…” e per questo che non ho fatto rapine “…Quand parlavi fasevi rid…” Quando parlavo facevo ridere. Lui era insomma vun de la Ligera, la vecchia mala meneghina, il cui punto d’onore era quello di non usare armi ma solo furbizia e destrezza. La mala del Paolo Valera, del Delio Tessa, del Luisin tassista, dei trani, della teppa, de l’Isola e l’Arèna. De Porta Cicca. Ecco, la quadra di tutto.
Non a caso il primo ad accorgersi di lui, per anni impegnato nel giro dell’oca delle patrie galere, son stati il Dario Fo e la Franca Rame con una riduzione teatrale delle sue gesta da bandito scarognato e grafomane incallito. Già. Perché, tra un carcere e l’altro, al Brancher gli era scattata la molla del foglio scritto con la biro. E le cose che contava, i furti, la strada, la rivolta puerile e senza fine di un Ligera, in quegli anni di orgasmo rivoluzionario, non potevano passare inosservate. Così, tornato a Milan, il Brancher s’è messo in testa di fare lo scrittore, il poeta, il narratore. Ci è riuscito. Dalla porta principale! Di lui, gatto spelacchiato, si era infatti innamorata quella Milano versipelle, annoiata, tanto Glamour per blasone, che in quegli anni, come oggi, come sempre, imperversava nelle mode e nei pensieri. Come già la Marchesa Paola Cangiasa (“vuna di prim damazz de Lombardia…” Porta docet) verso la Lilla cagnolino, molte Sciure con veranda in Porta Venezia nutrivano un umano affetto nei confronti del Bruno Brancher. Era il loro Belèe, la moda del momento. Lui, sornione, le lasciava ben fare. Orfano di tutto, malandato e senza un soldo a dispetto del buon successo dei suoi scritti, tanto era la sua rabbia quanto il bisogno di essere accarezzato; anche quando, chi lo faceva, gli usava la stessa disinvoltura con cui, nella Wunderkammer delle smorbietà meneghine, si maneggia una merce di raro, bizzarro, antiquariato. Perché questo era diventato il Brancher. La Milano di quegli anni era più la sua Milano. La vecchia Ligera l’era morta, la gente di una volta, quella dei quartieri popolari a ridosso dei bastioni, deportata nelle infami periferie; quelle stesse vie, le Cinque, la Calusca, Scaldasole, la Magolfa, ingoiate e stritolate da un nuova genia di fighetta illuminati da un mito di sviluppo e carrierismo.
E’ per questo che incontrarlo quel giorno smorto alla Statale m’è venuta un po’ di rabbia. “Ma perché te scrivet no in milanes?” Perché non scrivi in milanese?, gli ho buttato lì per lì. E lui: “Perché la storia l’è finida!”. Ecco. La Ligera la Calusca Scaldasole e la Magolfa, il “Ma mi” resistenziale, tutto andato a dar via il gnao. Ossia il culo. Lui stesso, bizzosa Mirabilia de quel Milan, vi era ormai destinato. Questa perdita, l’aveva dentro addosso. In una Milano che non riconosceva più, anche la sua memoria cominciava a fà cilecca. Diceva che da un po’ di tempo si dimenticava delle cose, dei nomi, dei luoghi. Scherzava no, non scherzava. Come tutto intorno a lui era scomparso, anche lui, la sua mente che balzana e puntigliosa aveva ficcato il coltello nella cassoeula di certa umana miseria, stava sparendo. Fino a quando in giro s’è visto più. Un giorno m’han detto che era morto per davvero. In una clinica per smemorati gravi e derelitti dalle parti di Vercelli. Lì per lì ghe son restaa pròppi de merda. Poi ho capito. L’ho detto, lo ripeto: con lui ci parlo ancora. Quando lo faccio (va’ che l’è vera!), a dirla col Tessa “tutta la compagnia morta la se descanta”. E va beh. Se questo può ancora più o meno servire, curare, salvare. O nisba. O niente. Al gnao insema a tucc.
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