monumental, lo spettacolo che ridefinisce i limiti

Nel numero di maggio del 1994, sulla rivista inglese The Wire viene usato per la prima volta il termine post rock. Autore della definizione – vera catastrofe nel condizionare la critica musicale all’esasperante ricerca di una collocazione etimologica a ogni sottogenere timbrico, ritmico o geografico – è il giovane Simon Reynolds, destinato in seguito a una instancabile produzione letteraria legata agli aspetti sociali della musica. La questione sfuggì di mano un po’ a tutti mentre, in parallelo, nascevano gruppi propugnatori di una musica strumentale dal callo ancorato alle timbriche tipiche del rock, innervato da ritmiche matematico-metronomiche, ma per nulla debitore sia alle radici blues sia alla logorroica stagione del progressive. Un tutto e niente che, per almeno un decennio, ha generato un calderone convergente nell’infausto insieme di una variante rock tendenzialmente priva di emozioni.

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Da questa peculiarità sono stati esenti fin da subito i Godspeed You! Black Emperor, collettivo atipico di Montreal, connotato da una particolare intransigenza politico-sociale, fondato dall’enigmatico Efrim Menuck insieme a Mauro Pezzente e Mike Moya nello stesso anno in cui Reynolds produceva la sua enunciazione. Negli anni a venire, il gruppo è stato capace di costruirsi una solida, autorevole e rispettabile reputazione artistica senza (quasi) mai concedere un briciolo della propria identità ad alcun compromesso né alle manipolazioni di stampa e pubblico. Uno status che li ha resi leggendari agli amanti del rock nella sua più severa declinazione artistica. Ma rimandiamo alla cyber-navigazione quanti avessero bisogno di informazioni più dettagliate sulla band.

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Dicevamo della mancanza di emotività connaturata al post rock e dell’immunità a tale deleteria connotazione riscontrabile invece nella musica dei Godspeed. Al di là dei pochissimi testi di Menuck, raramente cantati, spesso declamati, incentrati su solitudine, alienazione e paura, l’incedere strumentale del collettivo, con i suoi vuoti e pieni e le ascese magmatiche alternate a momenti di quiete pastorale, ha trovato nel ricamo tra chitarre, percussioni e violino, una propria struttura narrativa e un veicolo emozionale basato anche sull’interazione fisica col pubblico, a dispetto della riluttanza a mostrarsi o a concedersi alle moine tipiche di chi solitamente sta su un palco in quella fattispecie.
Proprio la staticità dei musicisti, spesso oscurati da un’insistente penombra, consente alla musica dei Godspeed di nutrirsi del pubblico, utilizzato come principale cassa di risonanza. E’ il pubblico stesso, destinatario di questa imponente onda d’urto strumentale, a restituire molto dello spessore emotivo alle trame sonore da cui viene letteralmente travolto.

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Una catarsi che, personalmente, ho vissuto soprattutto in uno dei loro brani più celebri, Moya, nell’incapacità di frenare le lacrime, e sto parlando di lacrime vere. Quelle che sgorgano improvvise quando ti trovi di fronte a un eccesso, talvolta indecifrabile, di bellezza. Con i Godspeed mi è capitato in diverse occasioni, a diverse latitudini e in momenti differenti della mia vita. Non è una questione di fragilità emotiva: posso immaginare che la stessa esperienza sia capitata anche a chi mi sta leggendo, in altre occasioni. A me è accaduto di fronte a un ponte della ferrovia a Londra, così come al cospetto di un minuscolo quadro di Vermeer alla National Gallery. Nessuna spiegazione è richiesta, nessuna è dovuta.

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Alla dimensione fisico-emozionale statica della musica dei Godspeed, mancava quindi un’estensione fisico-corporea, con l’aggiunta di inserti concettuali, elemento che ha sempre fatto parte dei loro show sottoforma di immagini e parole proiettate. Tutto questo accade nello spettacolo monumental, straordinaria commistione di (post)rock suonato dal vivo, coreografia moderna, arte visuale e molte altre cose di cui ci si rende gradualmente conto solo assistendo, come ho fatto io a Roma lo scorso 14 ottobre, presso l’auditorium della Conciliazione, nell’ambito del Romaeuropa Festival 2017.

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Scaturito dalla collaborazione – sulla carta improbabile – tra i Godspeed You! Black Emperor e la compagnia di danza canadese The Holy Body Tattoo, la complessa architettura scenografico-artistica di monumental ha preso originariamente avvio nel 2005, evento di teatro danza che utilizzava la musica registrata della band (in quel periodo in una fase di autosospensione da ogni attività) come struttura di base. E’ a seguito del ritorno dei Godspeed alla discografia e alla dimensione live nel 2010 che il direttore del festival di Adelaide, David Sefton, si prende la lungimirante briga di proporre alle due entità una presenza condivisa sul palco, risuscitando lo spettacolo in una dimensione espressiva notevolmente più consona.
Immaginatevi, infatti, la molteplicità di risposte richieste al pubblico, chiamato ad assorbire una spinta musicale così imponente mentre, tra sé e la band, collocati su un piedistallo, nove danzatori mettono in scena con altrettanta imponenza i gesti dell’alienazione quotidiana, in un crescendo di delirio dell’incomunicabilità, sofferenza e fatica. I coreografi Dana Gingras e Noam Gagnon spingono davvero i ballerini verso un limite fisico quasi invalicabile, ma è solamente in quel momento che i loro corpi diventano luminosi e visibili alla nostra sfera più profonda, catturando i sensi in una compartecipazione emotiva senza eguali. Lo stesso limite che, immagino, hanno dovuto valicare i Godspeed e la compagnia di danza insieme, per giungere alla consapevolezza sia dei rischi sia del risultato.

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A rincarare la dose, i testi tratti da Living di Jenny Holzer, una delle più stimate artiste concettuali statunitensi, proiettati su un telo trasparente che separa i Godspeed dai ballerini. Testi a loro volta alternati a immagini e video, allo scopo di procurare una continua sensazione di disagio multisensoriale dalla quale è impossibile recedere. Sono parole dirette, prive di ogni forma di ambiguità. Rappresentano un costante senso di pericolo imminente, che sentiamo ma che non riusciamo a definire.
Dal canto loro, i danzatori, vestiti in abiti da ufficio, si agitano singolarmente e collettivamente ognuno sul proprio piedistallo, in uno stato di perenne sofferenza. Le mani sui capelli, le mani che si graffiano il collo, le mani nella bocca, sulle spalle dolenti, sui vestiti, gesti sempre in cerca di una liberazione fisica da cui, avendo questa sofferenza radici in un malessere più profondo, non ci si riesce a liberare.
In alcuni momenti, i danzatori scesi dal piedistallo formano raggruppamenti in cui è plateale lo psicodramma dell’incapacità di trovare un equilibrio comunicativo idoneo alla condivisione. E, tra pianti e disperazioni, si torna sempre sul piedistallo, angusto spazio che può accogliere una sola persona (o una persona sola, se preferite). A voi le chiavi di lettura di questa rappresentazione della rabbia e della frustrazione trasposte nelle tante nevrosi di una quotidianità impastata di vicende, personali e sociali, smontate da ogni logica comunicativa, tra paranoie, desideri di intimità, tradimenti e chissà cos’altro.

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Una tale produzione artistica del disagio senza mediazioni potrebbe generare l’equivoco di immaginarsi un pubblico in atteggiamenti di resistenza o di palese rifiuto. Al contrario, assistere a monumental è un’esperienza personale e collettiva completamente coinvolgente, capace come poche di codificare un insieme di fili conduttori utili a scendere nel proprio labirinto personale. Una perenne collisione tra le parti, un continuo richiamo all’alienazione digitale, una riflessione monumentale sull’evoluzione delle tecnologie dell’informazione le quali, anziché generare scambio, succhiano le nostre energie rendendole succubi a un consumismo indotto, che avvertiamo certo, ma dal quale realizziamo che non sarà semplice affrancarci. E’ esperienza di tutti, credo.

Dicevamo dei testi di Jenny Holzer, veri e propri veicoli di espansione della coscienza, che meriterebbero una trattazione a parte. Si passa dall’evocazione diretta di sensazioni sperimentate e dimenticate, o magari rese inconsapevoli e meccaniche (“L’emozione straordinaria che si prova quando alcune parti del corpo vengono toccate per la prima volta. Penso alle sensazioni legate al sesso e alla chirurgia”; “La bocca è interessante perché è una di quelle parti in cui un esterno asciutto si muove verso un interno umido”) a frasi non prive di effetti di scuotimento individuale (“Ti rendi conto che perdi pezzi di corpo in continuazione e che lasci souvenir ovunque”; “Ci vuole un po’ per riuscire a passare sopra corpi inerti e proseguire nei propri intenti”).
Personalmente, proprio i testi sono stati l’aspetto che mi ha lasciato addosso il senso di maggiore (seppure benefico) disagio, più delle contorsioni dei danzatori, più della musica dei Godspeed, alla quale sono in parte assuefatto, ma da cui traggo godimento proprio per le trame scure. Parole che devi catturare, tradurre, assimilare, accettare, comprendere nello spazio di una dissolvenza.
L’aspetto musicale, invece, è un vero e proprio rock-show suonato in un teatro e a volume elevatissimo. Una straordinaria vastità timbrica che lascia pochissime scappatoie acustiche e che paralizza il pubblico fino agli applausi di chiusura, chiaramente anche di stampo liberatorio, oltre che indicazione fisica di gratitudine all’elevato sforzo prodotto (ricordate l’aspetto non secondario della cassa di risonanza accennato in apertura).

In questo senso, e proprio per questa ragione, è strano pensare come monumental possa essere stato concepito, a suo tempo, senza la contemporanea presenza fisica dei musicisti e dei ballerini sul palco. Una commistione teoricamente inverosimile, quanto bellissima. Un’asimmetrica simmetria che condivide il medesimo numero di persone in scena (nove musicisti, nove danzatori) ma che resta spiazzante nella sua multi direzionalità di costruzione e godimento. E’ un’estasi artistica che accomuna musicisti, danzatori e pubblico, costringendo chi guarda ad abbracciare le medesime fatiche di chi suona e danza, in una comunione su più livelli impossibile da fruire separatamente, se si desidera ottenere la medesima trance.

Come sempre, dopo aver contribuito a creare questa elegia dell’ansia della quotidianità urbana nel fondamentale impatto sonoro, coerenti con le loro riluttanze, i Godspeed si defilano al momento dell’uscita di scena, lasciando ai soli danzatori, devastati dall’insormontabile stanchezza, la raccolta del giusto tributo.
Per dovere di cronaca e per i cultori delle scalette, i brani eseguiti dai Godspeed You! Black Emperor nella messa in scena di questa nuova edizione di monumental che ora è in un tour partito da Roma e che toccherà molte città del mondo, sono così suddivisi nella loro dioscografia: cinque brani sono tratti da F#A#? (primo disco e perno dell’evento fin dall’origine), due dal penultimo album, Asunder, Sweet and Other Distress, due, infine, dal recentissimo e sesto lavoro del gruppo, Luciferian Towers.