NELLA LENTEZZA DEL SOLE NERO

a cura di Ianus Pravo 

Il bar è affollato, ho silenziato l’animazione delle conversazioni e il volume della musica concentrandomi su cinque ragazzi che giocano a carte e hanno accantonato sotto il tavolo dodici o quindici vuoti di birra. I loro gesti si uniscono, uno all’altro, a una frase una risata, e il passaggio delle carte a un’altra mano -e lo sguardo che si alza dal gioco e va di lato e, richiamato dal fuoco della voce, si ritrae su un volto. Ogni loro movenza è cifrata dalla brevità. La leggerezza è il loro cerchio attivo. Uno dei ragazzi si alza dal tavolo e con una mano deforme, contratta verso l’interno del braccio, prova a indicare al barista un altro giro di birre, quindi reimmerge la sua figura nel fluido vibrante descritto dalla corona a cinque elementi attorno al tavolo. C’è poi un collettivo alzarsi dal tavolo e la rottura del poligono dei giocatori. Avanzando verso l’uscita, il pentagono si aggroviglia, perde il cuore geometrico, lo ricompone, contratto o dilatato, contaminato dall’intersecazione con i nuclei figurativi degli altri avventori, orbitando intorno al virus del mio sguardo.
   Sto al banco, seduto su un seggiolino girevole, in mezzo a due uomini anziani con la testa reclinata sul petto come uccelli nel sonno. Un uomo calvo -stringe tra le labbra un sigaro spento- mi serve una birra troppo schiumosa. Un vecchio grosso cane mi si muove incontro ringhiando, ma l’ordine, sia pure svogliato, del barista lo riporta a cuccia sotto un tavolo. Entra una donna dalla carnagione olivastra e dai tratti asiatici e la segue una ragazza di sedici o diciott’anni, pallidissima e segnata in viso, con sangue rappreso sotto il mento, gli avambracci fasciati con garza ingiallita. Ordinano una bottiglia d’acqua, la ragazza la infila nella borsa di cuoio portata a tracolla. La donna orientale chiede un panino e una enxaimada, se li fa incartare, mentre l’altra si dirige zoppicando ai servizi. La donna posa sul banco un sacchetto di plastica pieno di monete e raccoglie il panino e la enxaimada avvolti nella carta argentata. “È a posto la tua amica?”, le farfuglia il barista senza ottenere risposta. La donna guadagna l’uscita. L’uomo se ne va al servizio, e torna trascinando il corpo esanime della ragazza. Afferrandola per il colletto della camicia, la traina come un sacco d’immondizia. Lei ha un piede nudo, ferito da una siringa, e il vecchio cane, uscito da sotto il tavolo, gli annusa il sangue fresco. La gente al banco gira la testa per seguire la scena. Il barista la scarica fuori della porta d’ingresso, sul marciapiede. Rientra, prende una bottiglia di brandy e si riempie un bicchiere.
   Entro nel servizio: ci sono la siringa e la scarpa perduta. Le raccolgo, e raccolgo la borsa di cuoio che contiene soltanto la bottiglia dell’acqua, mezza vuota e senza tappo. Il barista mi ha seguito con un secchio e uno spazzolone, mi posa una mano sulla schiena e mi fa scostare. Ha la mano destra ricoperta da un guanto di gomma: appoggia prima un ginocchio, poi l’altro, sul pavimento lurido, curva la schiena e passa uno straccio su una macchia di sangue. Stacco il lungo manico dalla spazzola, esco dal servizio e ne blocco la porta inserendo l’asta nella maniglia.
   La ragazza è ora seduta sul marciapiede inumidito da una pioggia fine e insistente, non riesce ad alzarsi. Ha le palpebre abbassate e dondola lentamente la testa come seguendo una nenia interiore. Sul piede scalzo un filo di sangue si è allungato e rappreso. Le passo un braccio dietro la schiena e un altro sotto le gambe e la sollevo senza che lei offra né resistenza né nessun’altra reazione. A poche decine di metri si trova un albergo a ore che qualche volta ho visitato. La porto là, tenendola tra le braccia. Prima di entrare le bacio le palpebre bagnate di pioggia.
   La proprietaria dell’albergo ci accompagna a una piccola camera buia, una lampadina pende nuda dal soffitto, e le persiane sono abbassate. Deposito sul letto la ragazza, che rimane ferma, come addormentata, con le palme delle mani appoggiate al ventre, una gamba piegata ad angolo retto e l’altra distesa e irrigidita. Accompagno alla ricezione la proprietaria e la pago.
È una donna corpulenta, sui trent’anni, e i suoi occhi neri e metallici, fluidi, puntano a lato del mio volto. Una forma d’inquietudine? E infatti, dopo qualche esitazione, non può fare a meno di chiedere “Tutto bene con quella?”, forzandomi a un sorriso lento e duraturo per l’immagine che mi si forma del barista urlante dietro la porta sprangata del cesso.
“Quasi tutto bene”, sussurro.
Non vuole altre spiegazioni. La sua voce, in asimmetria con lo sguardo fuggente, risuona chiara e pacata nel vestibolo che si apre su un lato in una stanza luminosa, adibita a cucina, da dove si diffonde un acuto aroma di curry. Le pareti pervinca del vestibolo sono state ricoperte (le ricordavo spoglie, pure di colore) da grandi riproduzioni fotografiche di manifesti cinematografici e, in stridenza, di un quadro di Tamara de Lempicka, “Il turbante verde”, in cui sono ritratti i volti eburnei di due donne: una reclina la testa sulla spalla della donna dal turbante come una fiamma di smeraldo, entrambe hanno labbra che la regolarità del segno fissa in un turgore astratto, in un gelo cremisi: e la prima ha gli occhi di un grigio fondente deviati verso l’inguardabile mentre l’altra li ha di foglia virata in rame, alti a sostenere il vedere. Sopra la piccola scrivania della ricezione, dove la proprietaria a contare il denaro che le ho dato, noto due piatti ovoidali colmi di cenere di sigarette e di bucce d’arancia. Urtata dal braccio dell’albergatrice, un’arancia rotola sul pavimento come una luce solida.
Una vampa vibra nella cucina. Aureolata dagli stipiti della soglia, una figura femminile è intenta a cucinare. “Vuole un po’ di queimada?”, mi dice la proprietaria. Mi accomodo su un sofà in velluto di un porpora liso e osservo l’albergatrice muoversi nella cucina con un’agilità che il volume della sua figura inaspettatamente non intralcia. Ritorna da me sorreggendo nella mani a coppa una tazza di queimada. La donna veste una tunica color turchese decorata con dei disegni in rosso e crema, che a prima vista mi sembrano dei fiori, ma mi accorgo che sono figure spiraliformi che si intersecano: la loro limpida astrattezza si unisce nella mia bocca al nitore del liquore caldo.
“Vi ho dato la stanza in fondo al corridoio perché è isolata dalle altre”, mi dice la donna, “e nessuno potrà udirvi, né udirete nessuno”. Alza gli occhi dal mio petto e li posa sulla mia bocca, sempre, cioè, al di sotto del livello del mio sguardo. “Non capita spesso di avere dei problemi, ma, per ogni evenienza, è meglio così”.
“I rumori della piazza si sentono, vero?”, le dico.
“Sì, un poco. Ma non ha importanza, per quel che dovete fare”.
L’intonazione ironica della sua voce non mi piace affatto, e con la mano faccio un gesto nervoso, di allontanamento.
“Non ci saranno problemi non per quello che devo fare, ma perché mi piacciono i rumori di strada”, dico, e le mie parole rimbalzano secche tra le pareti del vestibolo come prima non avevano fatto.
Percorro fino in fondo il corridoio e mi fermo davanti alla porta della nostra camera. Torno alcuni passi indietro, e mi riavvicino alla porta attento, questa volta, a tenere la testa bassa, come per riguardo, o devozione, al luogo, alla luce artificiale, al pavimento polveroso, al mio desiderio ferente come ghiaccio cementato alle mani. Dentro la stanza, in un pugno elettrico, la ragazza ha ripreso coscienza. Si è spogliata dalla cintola in giù. Allarga le gambe e con l’indice e il medio di entrambe le mani si separa le labbra del sesso. La bocca le trema in un riso nervoso, freddo. Insiste a ridere, la colpisco in pieno volto con la mano aperta, la colpisco con tutte le mie forze. Le cola sangue dal naso, e inizia a piangere. Mi chino ad annusarle e leccarle la ferita del piede, come il cane del bar. Poi le leccherò il sangue che le cola dal naso, poi le berrò le lacrime, come un cane.