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Non ripetere il mio nome / voglio dimenticarlo – Vanina Zaccaria
Non ripetere il mio nome / voglio dimenticarlo – Vanina Zaccaria
Non continuare a dirmi dove si trova casa
voglio rimanere sotto la foglia
procedere nella sua ruga
potessi essere muta come la terra
che non muta
Nessuno conosce la pena
che accomuna le forme grandi
con le forme piccole
il segreto commercio che intrattengono
Non ripetere il mio nome
voglio dimenticarlo
e nominarmi approssimandomi col resto
Essere, nel momento estremo
nient’altro che la grammatica del tronco
oppure del lichene
Malgrado questo
mi preme in petto uno sforzo umano
–
Non ti credo più
e nemmeno posso credere
al fischio della bandiera
Tra il fracasso delle cose che non durano
io piano mi addormento
come il grosso e goffo animale
nella vasta pianura dove nulla
lo copre
Come a nulla accenna
il tentativo quotidiano
Tu solo resistevi
tra il glicine e il geranio
ultimo segno
Tu per primo cadrai dunque
io per prima cederò,
prima che tu mi veda
fare la smorfia della quaglia presa
Mio padre che amava la campagna
è morto naufrago
con una sete immane
(Vanina Zaccaria, “Non si muore di notte”, RP Libri, 2020)
Due testi che affrontano in modo molto simile una stessa attitudine, si potrebbe dire, questi di Vanina Zaccaria: tra le tensioni umane, tutt’altro che nascoste, serpeggia un desiderio di pacificare i sommovimenti dell’io alla realtà naturale o – meglio – al segreto che ne contraddistingue le dinamiche silenziose e apparentemente imperturbabili.
In questo desiderio – che etimologicamente altro non è che una contemplazione del cielo, degli astri, per trovarne indirizzo, direzione, opportunità – si tratteggia una serena resa delle comuni certezze individuali, in nome di una possibilità di collegarsi alle regole di ciò che è disumano – potremmo dire – ma molto più terrestre.
Pertanto, ecco l’invito a non “dirmi dove si trova casa”, perché è preferibile restare nascosti, “sotto la foglia … muta come la terra” (ragionevole pensare anche al λάθε βιώσας epicureo) o a “non ripetere il mio nome”, perché “voglio dimenticarlo … approssimandomi col resto”: di questa tensione di incorporazione del mondo, di annullamento, se vogliamo, delle istanze individuali (principio che ha qualcosa di sacro, di una comunione naturalistica, banalmente, ma anche dell’anatman orientale) non si nasconde la difficoltà, la “pena / che accomuna le forme grandi / con le forme piccole” nel loro “segreto commercio”, che è in ogni caso auspicabile intrattenere, per divenire “nient’altro che la grammatica del tronco”: non la si nasconde affatto, anzi, se ne avverte la dolorosa contraddizione, nel momento in cui la Zaccaria ricorda, in chiusa, che nonostante questa aspirazione continui a premere “in petto uno sforzo umano”.
Il secondo testo aggiunge ulteriori dettagli al quadro sin qui delineato, confermandone alcune caratteristiche: innanzi tutto la tensione alla pacificazione dell’io in una dimensione naturale (data dalla similitudine con un “grosso e goffo animale” che cade addormentato “nella vasta pianura”) o alla resistenza avverso la quotidianità, esercitata “tra il glicine e il geranio”; in secondo luogo la presenza del vuoto (“nulla / lo copre” … “a nulla accenna / il tentativo quotidiano”), ulteriore indizio di annullamento e di accoglienza di un esistere al di fuori della dimensione dell’io, in un assoluto “altro da sé”.
A questi elementi si aggiungono l’insufficienza del linguaggio e della comunicazione umana in ogni sua forma (“non ti credo più / e nemmeno posso credere / al fischio della bandiera”) e la percezione della prossimità del cedimento – e conseguentemente, la consapevolezza della provvisorietà e della precarietà delle relazioni e delle circostanze umane (“tu per primo cadrai dunque / e io per prima cederò”).
Nella chiusa, infine, il riferimento a un “padre che amava la campagna” aggiunge ai dettagli sin qui analizzati una sfumatura originaria e primordiale alla tensione verso il naturale, che a sua volta si fa collegamento e radicamento in una dimensione – con un apparente paradosso – umana e storica; e la fragilità delle tensioni umane, con le sue singolarità e i suoi sforzi di appropriarsi di una dimensione in armonia con ciò che lo circonda, nonostante la spina dolorosa delle proprie aspirazioni, è resa perfettamente con l’amara ironia dell’immagine finale del genitore, “morto naufrago / con una sete immane”; questo sembra ribadire che la natura, il mondo, in generale tutto ciò che è “altro” dalla dimensione umana, è qualcosa che è possibile accogliere, comprendere, in cui è possibile annullarsi, entrare in comunione, ma che non si può assolutamente controllare, vincolare o imprigionare: suona come un monito la chiusa icastica, emblema della crudele ironia di cui sono capaci le circostanze delle cose verso chi non vi si arrende incondizionatamente.
Mario Famularo
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