NOTE NOLENTI SU NARCISO E LA BELLEZZA

a cura di Ianus Pravo

È vero. La società attuale può essere indicata come “wound culture“, per dirla con Mark Seltzer. La ferita non è più il segno del sacro o dell’eroismo, ma un’immagine comune, che corrisponde all’apertura quotidiana del corpo. Così, sempre secondo Mark Seltzer, la gente indossa, magari davanti a una camera televisiva, la propria sofferenza come distintivo d’identità o accessorio di moda. Questa è la macchina tritacarne del sociale, di fronte a cui, tacere è bello

Nella storia dell’Arte, gli autoritratti che recano il segno di una lesione, di un trauma corporeo, sono numerosi. Si potrebbe stilarne un nutrito elenco, a partire dal celebre Homme blessé di Courbet del 1854. Vincent Van Gogh, per esempio, si è autoritratto due volte con l’orecchio fasciato (1889), in seguito all’episodio di autolesione che lo vide protagonista, mentre Ensor ne Il mio ritratto da scheletro (1889), e Munch (L’autoritratto con braccio scheletrico, 1895), si sono immaginati in una situazione ancora più estrema, non solo feriti ma prematuramente trasformati in scheletri, in bilico tra la vita e la morte. Nel Novecento poi vanno segnalati, tra gli altri, gli esempi di Victor Brauner, Frida Kahlo, Antonio Ligabue, Gina Pane, Jo Spence, Matushka, Ana Mendieta, Francesco Clemente, Nan Goldin, Orlan, David Nebreda…

…già, David Nebreda. In molti autoritratti la ferita è un segno immaginario. Per David Nebreda, su cui ho scritto un articolo in questa stessa rubrica (“La notte è chiara e l’alba non è più necessaria“, Ruby Tuesday, www.niederngasse.it ), la ferita è una realtà concreta, una pratica che prescinde dalla rappresentazione. David Nebreda è per me Narciso. Narciso è per me il prescindere dalla rappresentazione, sia pure nella rappresentazione, sia pure nella galera, nella cisterna del Battista.

Narziss im Endakkord von Flöten“, recita lo splendido verso di Georg Trakl, Narciso nell’accordo estremo dei flauti. Di fronte alla morte, in ascolto dell’ultima e prima luce, musica estrema, c’è Narciso. Il mito di Narciso è un mito ambiguo: può significare assenza di coscienza, o, al contrario, coscienza efferata dell’alterità: affollata cella, o, all’opposto, aperto deserto. È comunque la contemplazione attonita di un suicidio. Senza Narciso non c’è poesia, e non c’è vita. La poesia-vita nasce da un tempo di autocontemplazione. E nessuno può saggiare il volto dell’altro, il volto d’altro, se previamente non ha provato il suo proprio volto. Io, come ogni uomo, sono Narciso. Il volto è in prestito, lo sguardo è a credito, e il discorso è il discorso dell’altro, il vedere è il vedere dell’altro. Io, come ogni uomo, sono l’ebreo, sono colui che non possiede nulla che gli appartenga veramente, che non sia dato a credito, prestato, e non sia da restituire, in parole di Paul Celan.

e nello specchio il mio volto non c’è
lasciatemi allora baciare quest’astro spento / trapassare lo specchio e arrivare così dove neanche il sospiro è possibile” (Leopoldo María Panero).

Nella riflessione incantata della propria immagine, l’artista, come l’uomo, mette in gioco la propria identità, l’integrità dell’io, che viene posto in questione come enigma, e questa è la critica (la sola autentica critica) all’ideologia dell’individualismo, che afferma la scomparsa dell’altro nell’esaltazione della solidità identitaria dell’ego. Se l’io è reso instabile da uno sguardo simultaneamente feroce e catalettico, si riduce allora a una domanda che non riesce a chiudersi con una risposta, e la cancellatura che abrade l’ego attesta il riconoscimento dell’altro, il riconoscimento d’altro. 


(DAVID NEBREDA)

Mostrare un’incisione sulla pelle è come mostrare un sorriso: esposizione dell’orrore dell’io. Mostrare il proprio dolore è come mostrare il proprio piacere. Anterotismo, fortunatamente. L’erotismo teatralmente dialogante del piacere borghese lo lascio alle guardie del castello identitario. 

Ciò che desidero è con me, l’abbondanza mi ha reso indigente.
Oh potessi separarmi dal mio corpo!
Inaudito desiderio in un amante, vorrei che ciò che amo fosse assente.

(Ovidio, “Le metamorfosi“).

Narciso è l’eroe porno della dissoluzione del corpo. Quanto più guardato, inciso, ucciso, tanto più il corpo dispone la sua assenza al desiderio dell’amante. La storia di Narciso è la storia di un suicidio. Egli si dà la morte per voler baciare, per voler possedere la bellezza. Noli me tangere, dice invece la bellezza. Ma egli in realtà non vuole toccare la perfezione della bellezza. Egli vuol fare la bellezza, vuole imperfettamente fare, perché ogni bellezza il cadavere attraversa / e si purifica nel fiume della morte.

“Era bello Narciso?” chiese la fonte.
“Chi meglio di te può saperlo”, risposero le oreadi. “Da noi, egli non si fermava mai, sempre ti cercava, per chinarsi sulla tua riva e nello specchio delle tue acque contemplare la propria bellezza”. 
E la fonte rispose, “ma io invece lo amavo perché, quando sulla mia riva disteso mi guardava, nello specchio dei suoi occhi ero sempre io a vedere, riflessa, la mia propria bellezza”.
(Oscar Wilde, “Il discepolo“).

Faccio l’amore con il mio scheletro
Faccio l’odio con il mio specchio
Faccio la fede con il mio ventre
Faccio il mio Dio con il mio ritratto

(Carlos Edmundo de Ory, “Il flauto proibito“).