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One More Time With Feeling e il mito di Orfeo
Indossare un paio di occhiali 3D per scandagliare l’universo sospeso di questo film appare, sulle prime, un po’ straniante, soprattutto dopo l’ascolto delle canzoni di Skeleton Tree, di cui il lungometraggio di Andrew Dominik è il resoconto per immagini. Ci si abitua però rapidamente al senso di smarrimento e di precarietà anche formale, che gradualmente si concentra sugli sguardi e sulle parole faticose di Nick Cave. Alla lunga, questa tridimensionalità – che l’artista descrive come dimensione tipicamente femminile – rende anche più nitido ciò che si accatasta man mano nel film, conferendo alle canzoni stesse una sorta di terza dimensione. La vita di Cave ha subìto un trauma lacerante che ne ha scompaginato il flusso (prima narrativo e ora ad accumulo lo descrive l’artista) modificando per sempre il rapporto con le cose. La nuova consapevolezza, in cui Cave si muove tentoni, non ha né passato né futuro.
Tutte le riprese sono in interni: lo studio di registrazione, un taxi, la casa di Brighton. Una città che mostra sì i suoi scorci, ma sempre luoghi interiori, nel finale del film addirittura quelli percorsi da Arthur negli ultimi istanti della sua vita. La cinepresa ruota attorno alle persone e alle cose con una circolarità esasperante, a richiamare i gironi danteschi che percorriamo scendendo lentamente con Cave nel cuore (e nel senso) del film, una sorta di veglia funebre dalla liturgia lenta e maestosa. Richiamando anche la figura dell’anello chiuso, in cui, per sopravvivere e per andare avanti, Nick e la sua famiglia hanno confinato gli avvenimenti. È uno sguardo impressionante quello del volto di Cave: talvolta concentrato sul testo che sta cantando, più spesso fissato in un altrove che neanche lui riesce a restituire, anche perché le parole non arrivano, o restano a metà. Gli elementi contrapposti sono il perno del film: un caos ordinato in un bianco e nero – è la prima volta per il 3D – disturbato da rapidi bagliori ambientali. E da un certo punto in poi, Nick Cave si trasforma in una sorta di Orfeo, lasciando affiorare la consapevolezza che sarà ancora la musica, col tempo, a lenire il dolore, suo e dei suoi cari, ma anche quello degli sconosciuti incontrati dal panettiere che gli mostrano pietà. E perfino rassicurare chi si aspetta da lui altri dischi che no, non conterranno più profezie.
Raccontando quanta potenza avessero la sua musica e i suoi versi, di Orfeo Seneca scriveva: “Cessava il fragore del rapido torrente e l’acqua fugace, obliosa di proseguire il cammino, perdeva il suo impeto… Le selve inerti si movevano conducendo sugli alberi gli uccelli; o se qualcuno di questi volava, commuovendosi nell’ascoltare il dolce canto, perdeva le forze e cadeva… Le Driadi, uscendo dalle loro querce, si affrettavano verso il cantore, e perfino le belve accorrevano dalle loro tane al melodioso canto …”. Non sarebbero fuori luogo allora le parole del poeta filosofo latino, per descrivere il livello artistico raggiunto da Nick Cave, cantore altrettanto benedetto dalle Muse. Entrato nel mito fin dalla nascita – secondo di un gemello nato morto, ma si racconta anche venuto al mondo con una sorta di coda, poi amputata – è sgusciato prima dai bassifondi di Wangratta, poi dai rantoli del post punk, per diventare musicista imbonitore e infine essere accolto con merito nell’Olimpo dei grandi. Abbiamo imparato a convivere, senza mai smettere di stupirci, con la qualità delle sue canzoni, sapendo che parlano a noi di noi stessi prima di tutto. Sorta di archetipo, predestinato a muovere all’unisono i passi dell’arte con quelli della vita: a un certo punto del film, Nick richiama la portata profetica di queste canzoni, scritte prima del tragico avvenimento, prendendone le distanze per paura che ciò sia davvero reale. Quello che succede nei dischi e nei film di Nick Cave è quindi una faccenda che appartiene a ognuno e che va oltre al rapporto che si può avere con l’artista, col musicista, con lo scrittore.
Nel film precedente, che raccontava il suo ventimillesimo giorno sulla terra, Cave sembrava afferrare per mano proprio te, entrare dentro di te come una lenta spirale, cominciando a scavare. Con le sue parole e col dono di una consegna totale – perfino spiazzante per la sincerità, disarmante nel descrivere una giornata qualsiasi trascorsa a Brighton tra vicende reali e immaginarie – ti accompagnava a rivedere la tua stessa vita, il significato che le hai dato, la ricerca della verità, la fedeltà a se stessi. Il rapporto che hai costruito con l’arte e la bellezza. Un ex tossico che ti parla di Dio meglio di chi lo fa di professione, che ti avvicina perfino a quello che di te non hai ancora compreso perché ti è sempre sembrato troppo ambivalente o mostruosamente inaccettabile. L’importante, diceva, è farne memoria, racconto. Un po’ come la psicanalisi, che della mitologia ha fatto uno dei propri pilastri, mettendosi al tuo fianco e ricordando la vicenda di ognuno con lui, infine ti conforta, fornendo la chiave per accettare quello che della vita non capirai mai, ma che non smetterai di provare a capire.
La vita, appunto, che ha i suoi piani, talvolta così diversi dai tuoi ed è qui che si spezza la dimensione narrativa dell’esistenza. Nell’incrocio crudele del destino che sovrappone l’artista all’uomo, ecco che nella vita di Nick Cave irrompe l’altra faccia del mito di Orfeo, il volto più lacerante, quello che fornisce la cornice di questa fatica artistica, senza dubbio tra le più maestosamente belle e dolorose anche per uno che nelle canzoni non ha mai lesinato né di dolore né di bellezza.
Come Orfeo, simbolo stesso dell’arte, l’immortale Nick Cave deve patire da uomo la tragica morte di una persona amata. Portando a conclusione Skeleton Tree dopo la scomparsa del figlio quindicenne, lo vediamo nel film percorrere il medesimo tragitto oscuro nel regno dei morti, cercando di riavere indietro, in qualche modo, qualcosa della vita di quel figlio così amato. Se, con la musica che si è portato con sé in questo viaggio, sia riuscito a commuovere tutti a tal punto, non sta a noi deciderlo, ma lo vediamo sullo schermo senza veli.
Credo che in questo risieda il senso ultimo di Skeleton Tree e di One More Time With Feeling, in cui ci è permesso dialogare con quel dolore che gli riempie gli occhi (e le liriche) di azzurro e fuoco. Sarà riuscito a impietosire Caronte per essere traghettato sull’altra riva dello Stige, a intenerire Cerbero, l’orribile cane con tre teste, e non farlo abbaiare così da avere la strada spianata? Le terribili Erinni avranno cessato il pianto al suo cospetto? La sete di Tantalo si sarà placata? Il suo canto avrà toccato nel profondo il cuore di Ade e Persefone, così che questo viaggio musicale gli abbia realmente valso di riportare con sé qualcosa di quel figlio “caduto dal cielo e precipitato su un campo vicino al fiume Adur”?
In Jesus Alone siamo spettatori di un’immagine efficace in questo senso quando, a un certo punto, anche la figura austera di Warren Ellis sembra, con un gesto esplicito delle mani in primo piano, reclamare indietro la vita di quel ragazzo. E lo siamo perfino più esplicitamente nei titoli di coda, ascoltando la voce di Arthur cantare Deep Water, un brano di Marianne Faithfull registrato a casa con Nick al pianoforte (non è questo un modo possibile per riportarlo dall’Ade?). “Tutti mi dicono che lui è vivo dentro di noi, ma lui non è più realmente vivo” dice Cave nel film.
Nessuno può riportare a Nick Cave la vita di Arthur, ma l’ascolto del disco e la visione del film (il viaggio di Nick-Orfeo) valgono a noi il ridare vita non tanto al valore di un artista che già, come si diceva, abbiamo collocato nell’Olimpo dei classici; ma piuttosto al legame che abbiamo stretto con la musica popolare, come qualcosa capace di metterci le mani dentro e consegnarci una dimensione salvifica, escatologica, pregnante. Un lampo silenzioso, venuto a illuminare una via possibile per sottrarsi al buio delle dinamiche perverse della discografia o ai labirinti della tecnologia, che nulla hanno a che fare con il turbamento che la musica sa procurare. La musica come qualcosa che possa trasformare nuovamente la materia di cui siamo fatti e far tacere il fragore che ci circonda. L’impeto di un torrente, per dirla alla Seneca: ognuno sa bene quale sia il proprio personale chiasso da zittire.
Chi ha rappresentato figurativamente il mito di Orfeo, spesso ha evocato questo silenzio esaltando la solennità dei gesti nel loro insieme, soprattutto fissando l’atto del distacco con Euridice. In quasi tutte le più riuscite rappresentazioni attraverso la pittura o la scultura, si osserva lo spazio lasciato a piccoli fasci di luce che filtrano nell’abbraccio tra i due. La luce che fu fatale a Orfeo, voltatosi a guardare il volto della sposa e perciò morta di nuovo, è la stessa che rende meno cupo il buio della disperazione, con l’accettazione dell’inevitabilità del destino. Passa il soffrire, ma non passa l’aver sofferto: quello che ha commosso Zeus, inducendolo a collocare la testa di Orfeo in mezzo al cielo nella costellazione della Lira, chiama anche noi alle lacrime. È nell’ascolto delle canzoni tra le immagini di One More Time With Feeling che facciamo anche noi (con lui) esperienza del potere salvifico dell’arte e della bellezza, ritrovando ciò che a poco a poco ha reso più dolce il dolore di Orfeo e, forse, anche quello di Nick Cave.
“Sii oltre ogni addio, come se fosse già dietro di te – come l’inverno che appunto se ne va” scriveva Rilke riferendosi a Orfeo. “Trova le parole per raccontare il tuo dolore o ne morirai” diceva più esplicitamente Shakespeare nel Macbeth. “Noi abbiamo deciso di essere felici: è un atto di vendetta e insieme di sfida”. Con queste parole, dopo averci reso testimoni del suo viaggio nell’Ade, Orfeo-Nick Cave, esso stesso simbolo e prodotto sia dell’arte che dell’uomo racchiusi nella stessa sofferenza, ricorda come la vita di ognuno tenga custoditi i singoli percorsi di dolore e di bellezza e le singole risoluzioni per restare nella luce. “Alle risorse già usate, come a quelle oscure e mute della natura ricolma, alle somme indicibili, aggiungi con gioia te stesso, pareggia il conto!”.
Con in testa le parole con cui Rilke conclude il sonetto dedicato a Orfeo, usciamo dalla sala al termine della proiezione, trattenendo in esse il senso di un film che è già parte della nostra personale mitologia.
One More Time With Feeling sarà sul grande schermo solo il 27 e 28 settembre.
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