perlamara

Se scrivere è chiedersi com’è fatto il mondo (A. Rosselli), allora riscrivere è non finire di chiederselo. Nella ripresa delle parole, nella loro quasi esatta trasposizione o in minimi spostamenti si colloca l’incollocabile.

È il ritorno nelle parole, al loro doppio che apre, sottovoce (ma è un sussurro, ferreo e implacabile) alla metamorfosi della forma -parola. Ma bisogna rompere, recidere, tagliare questa lingua che pare morta e farne altre forme, altri corpi. Come dire altrimenti della morte (“E la morte? Gira. /S’infila e scappa, spariglia”), se non attraverso la metamorfosi, le ali, il becco? Sonia Lambertini, con “perlamara” (Marco Saya, 2019) rompe l’afasia, gioca con le parole per fare una lingua “altra”, chiara e amara. C’è la domanda sul “senso”, senza che questo venga mai nominato, ma dalla terra, dal corpo ridotto a parti, sfilano parole petali, letali e nuove. Secche nei suoni, verticali, montaliani. C’è calma ostile, resistenza a dire. Del silenzio siamo l’escrescenza carnose, “parola / corpocarta”, spinti per forza gravitazionale alla terra. Qui germina l’architettura, nascono le parti di un discorso che livella, tiene insieme i separati, i lontani solo in apparenza. Perché tutto avvolge, la lingua, che è di corvi e di “fusti recisi” (ancora tagli). La voce degli uccelli, il loro beccare, nella terra, presta agli umani, alla voce del poeta, un suono cavo. Dove finisce la memoria?

Avevo la memoria
un guscio d’uovo,
la sua forma globulare
l’andatura “an”
non riesco a dirlo

“angor animi”

volevo dire, il loto.

Se fosse inconscio, sarebbe lucido, avrebbe superato l’ostacolo della censura senza tuttavia essere coscienza. È questione di distanze. D’altra parte avremmo parole semplici per dire l’angoscia, ma non sarebbe poesia, sarebbe il muto silenzio della parola che ha capito e chiude. Mette il punto. La poesia sposta l’asse del senso comune verso l’incognita del linguaggio. Sonia Lambertini fa esperienza necessaria di parole recise e scarne, essenziali. Cosa venga prima, se il reale o la parola, è impossibile e forse è inutile dirlo. Certo la ricerca, lo scavo, la sottrazione sono in ciò che resta, nell’essenziale corpo-parola.

Questa lingua è un sibilo, un sussurro (“smagra il cuore”, “sgrava il cuore il chiarore, l’abbaglio”).

Sbaglia la lingua, battaglia
Striscia. Sottoterra bisbigliano,
sottoterra. Gridano i folli, s’incurva
il merlo; sbecca, mutila il canto.

Lingua distopica, misurata, il cui grido è tutto nella distanza che hanno le cose quando sai (ontologicamente lo sai, lo sai perché ne hai fatto “esperienza”) che nella terra la battaglia è già avvenuta. Tu la vedi e non puoi che rappresentarla così, magnificamente, spezzata.

Rosa Riggio