Recensioni
Peter Handke. La scrittura assedia l’immagine
a cura di Guido Michelone
La storia è piena zeppa di scrittori che si cimentano nell’arte (pure viceversa, per intendersi). In particolare l’epoca moderno-contemporanea vede qualche illustre firma che, a carriera ormai raggiunta, dal punto di vista sia anagrafico sia espressivo, tira fuori dai propri cassetti i propri lavori figurativi per mostre o libri, sollecitati da amici, galleristi, editori. Si sa ad esempio che il critico d’arte Gillo Dorfles intensifica l’attività pittorica, riconosciuta pubblicamente, attorno al 2000, attraverso molte esposizioni, quando è già ultra ottantenne. Oppure che nel 1981, a un anno dalla morte, Roma ospita una collezione di sorprenderti disegni del semiologo Roland Barthes, in Francia già ben noti da quando egli stesso confessa di ‘scarabocchiare’ su fogli bianchi soprattutto durante convegni particolarmente noiosi dai quali però non può sottrarsi.
Le carte barthesiane, circa trent’anni dopo, richiamano per analogia i disegnini antologizzati nel volume Peter Handke. Disegni, uscito da Jaca Book, quasi a ridosso alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura al romanziere austriaco. Il libro si offre quasi ludicamente di inventare, nella mente del fruitore, continui rimandi tra contenuto e contenitore, significato e significante, consentendo di scoprire le indubbie qualità di un raffinato disegnatore.
L’attività di Handke è assai simile a quella di ogni comune mortale, dal professore allo studente, dal giornalista allo scienziato, quando prende appunti e al contempo, quasi alla stregua di una surrealista écriture automatique, disegna figurine o ghirigori ai lati delle pagine. Qui però esiste qualcosa di più e in più, che suona come originale, affascinante, profondo e seduttivo. Il settantottenne Peter Handke da Griffen non solo abbozza, schizza, ricalca, colora alcune zone bianche dei propri appunti, ma pure, ‘come artista’, lavora direttamente sui libri che sta leggendo. Ad esempio, una ciliegia, le mani che affiorano dalle pagine del Vangelo di Marco, i caratteri dell’alfabeto greco, partecipano visivamente a un tutto, un unicum tra disegno, forma, linguaggio, scrittura dell’autore medesimo. Sembra quasi una mappa concettuale, in cui anziché chiarirsi didascalicamente, i fruitori passeggiano incuriositi come in un labirinto. Esistono poi disegni relazionabili a luoghi fisici, la Piccardia, la Serbia, la Corsica o la città di Parigi, anche i soggetti maggioritari risultino via via la natura, gli animali, le piante, i frutti, alcuni personaggi religiosi, la baia di nessuno, persino un istante senza limiti, che è poi una parte del titolo di un libro di Handke stesso.
I fogli, realizzati tra il 2007 e il 2017, già stati esposti alla Galerie Klaus Gerrit di Berlino, nel 2019 sono stati pubblcati in volume per i tipi di Schirmer e Mosel nel 2019 e un anno dopo in Italia con Jaca Book. Ed è come suggerisce il poeta Antonio Trucillo in un’esauriente disamina su «Pangea»: “È la mancanza che definisce questi disegni. Infatti essi non hanno volume, non hanno proporzioni, non hanno profondità, non hanno luce. Giusto un po’ di chiaroscuro, qua e là, su qualche ciliegia, qualche mela, oppure il colore del pennarello che insiste su una forma, il segno ripetuto della matita che torna più volte sulla linea già tracciata, per definire meglio un contorno, per far risaltare il soggetto: un fiore di tiglio in una tazza di caffè”.
Quelli di Handke risultano inoltre disegni essenziali, addirittura senza un’impaginazione: “(…) probabilmente, penso io, perché scaturiscono dentro l’imprevisto, ecco la verità, sgusciano o spuntano dalle pagine di un libro sovrapponendosi alle parole scritte, e stanno ai margini dello stampato, seppure rappresentano il centro della composizione, o almeno il suo briciolo di significato, che in un certo senso illustrano, e allo stesso tempo sono il punto in cui si mostrano, in quanto vivono come scarabocchi, mostri, mostriciattoli, poesie anche loro, verità anche loro, nonostante siano creazioni molto piccole, incomplete, abbozzate. Viene da chiedersi: perché, la verità non è anche nel microscopico? Non è anche nel punto più piccolo della terra?, che a stento vediamo, o che non riusciamo a percepire, ma esiste, e, proprio perché non visibile a noi, è vero, è segno di verità, dunque non percepibile ad occhio umano. “Scrittura che si fa cosa”, si dice nella presentazione di Agamben, e poi: ‘…che ha trovato salvezza nel piccolo’”.
I disegni di Handke per Truccillo rappresentano un vespro drammatico, infantile, espressionista, che sembra imparentarle alla tecnica della parodia: “(…) sono ironiche – è sempre Trucillo a disquisire – nel loro cercare uno spazio, che trovano ai margini di una pagina, e allo stesso tempo lo negano; si negano la cosa fondamentale dell’arte figurativa. Ma nello spazio del già scritto, dello stampato, del margine, trovano una loro collocazione. Questo luogo è la poesia (…)”.
Per concludere, il critico d’arte Angela Madesani sottolinea invece che “Nonostante le piccole dimensioni, in essi vi è una sorta di dramma, dato dal segno fitto e illeggibile nella sua unicità. Come spiega il filosofo, Handke non è interessato alla forma, ma alla sua genesi. Una genesi, una Gestaltung, che qui, con la dovuta lentezza di approccio, riusciamo a cogliere in tutta la sua potente portata. E infine il filosofo Giorgio Agamben nell’introduzione ai disegni su libro premette: “Nel surimono di Handke, la scrittura assedia l’immagine, la circonda da ogni parte, si infila dovunque, ma a volte si sottopone e si arrende, docile, fino a farsi soltanto titolo e didascalia […]. Sono lembi strappati a un foglio, marginalia finiti per errore dentro al testo, ma, come il limbo secondo i teologi, essi si situano in ora inferni, sul margine dell’inferno. Beati, come i bambini e i filosofi del primo cerchio, eppure a un passo dal gorgo dei dannati”.
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