Poesie per un gatto (e non solo). Vivian Lamarque. (Rosa Riggio)

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Ci sono alcuni libri che sembrano giungere puntuali ad un appuntamento inconscio. Magari hanno un aspetto innocuo, senza troppe pretese di verità. “Poesie per un gatto” di Vivian Lamarque è uno di questi. Non ho mai letto che qualche poesia di Vivian Lamarque e non so se leggere questo libro, uscito nel 2007 negli Oscar Mondadori, sia il giusto modo di iniziare a conoscerne l’opera. Poi penso che non esiste un giusto modo e che, per ora, è sufficiente il disegno del gatto in copertina perché la conoscenza avvenga. Un motivo più che sufficiente, per me, che aspiro, come molti gattofili, alla gattità. Difficile spiegare, in poche parole, cosa sia la gattità, sarebbe come voler sintetizzare il concetto di umanità. Con la differenza, non trascurabile, che la seconda è di gran lunga inferiore alla prima.
Queste poesie, scritte per il gatto Ignazio, ne hanno assimilato, forse per proprietà transitiva, alcune caratteristiche. Silenziose, attente, interrogative, in ascolto. Ignazio vuole sapere del vento, del perché una rosa può dare dolore. Ma, soprattutto, perché lasciare la casa con giardino?

Dopo tanto giardino
guardi serio questa casa prigione
con che occhi me ne domandi la ragione.

– Ma è vita questa? Ieri
ho sognato una foresta era
bella come il mio giardino
basta, non lo voglio questo destino.

Oppure, sulla poesia:

– Stai scrivendo una poesia?
– Sì.
– Per il mio libro?
– Sì.
– Pensaci bene voglio un’operetta
non troppo minore io.

– Aiuto Ignazio le rime mi inseguono
come pulci!
– Pulci? per carità!
via da me via!
via dalla poesia mia!

È come andare a lezione di poesia, appunto. Leggendo, capiamo quanto sia importante togliere tutto ciò che non serve, arrivare all’essenziale. I gatti, in questo, sono maestri, “sono i re, della laconicità”.
Sappiamo quanto la poesia nasca dall’ignoranza, dal non sapere, quanto dica l’impossibilità di dire, quanto la mancanza.

Fai l’agguato
a una piuma di merlo
l’intero manca
anche a te
senza saperlo.

Sappiamo quanta poca distanza ci separa dal tempo passato e dal tempo futuro, quanto la memoria ci azzeri, presto, troppo presto.

– Ma Ignazio ti ricordi qualche volta
dei tuoi genitori dei tuoi fratelli
maggiori e minori?
– Zero.
– Ma come non hai un po’ di cuore
di memoria?
– Preistoria.

E, magari, ha ragione lui, quando dice che ci siamo confusi, che la gatta Zarina non è morta, che “vedendola dormire vi siete confusi/col morire.”
Cosa ne sappiamo, noi, della morte.
Ci sono libri che giungono così e sono un atto d’amore. Ignazio, protagonista di versi trasparenti e misteriosi, non morirà, perché, come nel verso della Szymborska che apre il libro, “Morire – questo a un gatto non si fa.” 

Rosa Riggio