Promemoria. Andrea Bajani

“Promemoria” di Andrea Bajani (Einaudi 2017)

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Telefonare ai morti può essere un buon modo per non rinunciare alle parole. Ma bisogna fare presto, “dire tutto in un fiato”. Il fiato, in “Promemoria”, di Andrea Bajani è corto, misura pochi versi, 4, 6, non più di 8, è il fiato di chi cerca di liberare la parola trattenendo il respiro del verso. Bajani fa con la poesia quello che bisognerebbe fare con la felicità, esercitarsi a trattarla come fosse un “organo qualsiasi”. Bocca, gola, per esempio. Non dimenticarsi di respirare. Il punto di vista è quello di un neonato (“Promemoria” è il primo libro di poesie di Bajani, soprattutto narratore), è dunque dalla parte della sorpresa, solo così il mondo si può muovere, con la forza ingenua di nuove domande. “Promemoria” mette all’infinito le cose da fare, fa quello che è la funzione principale della poesia: disobbedire. È un procedere liberatorio, una messa a soqquadro, un desiderio di scardinare, di aprire le gabbie delle parole. La questione è politica, terreno dove le parole hanno subito una sottrazione di senso, o meglio uno scadimento della loro funzione conoscitiva e creativa. L’infinito ossessivo con cui Bajani apre ogni poesia vuole essere un monito anche contro gli insegnamenti, le apparenze, i moralismi, le certezze. Anche contro il destino delle stesse parole. Queste cose da ricordare, queste istruzioni per l’uso, ci ricordano l’unico esercizio che dovremmo tutti mettere in pratica: non smettere di chiederci, di domandare. Alla poesia e alla politica spettano compiti simili. La prima ribalta l’ordine delle cose così come ci sono state consegnate e la seconda, ugualmente, dovrebbe ripensare il proprio destino. Magari il destino della politica sarebbe diverso se si pensasse un po’ come pensano i poeti. Ecco una cosa da ricordare, o meglio, da imparare.

Guardare dove guarda il neonato
nel tempo tra la stella e il desiderio.
Seguirlo in un punto mai mappato.
Prendere sul serio il niente che
con gli occhi ha intercettato.

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Rosa Riggio