Rawsht Twana: alla ricerca di una patria (I parte)

Ho incontrato Twana un pomeriggio di aprile del 2018, in un bar storico di Torino che mi affascina molto per le atmosfere decadenti, i broccati rossi, gli ambienti di un dorato esausto. Twana è stato un mio studente, in quel periodo stava imparando l’italiano e frequentava il CPIA per poter conseguire la licenza media. Barba nerissima, capelli folti, occhi sorridenti, i modi gentili e la voce bassa, da subito in classe aveva suscitato la mia attenzione: quando ho scoperto che era un fotoreporter mi sono interessata al suo lavoro e sono andata a visitare una mostra molto toccante, “Over my eyes: una mappa di sfollamento”, in cui erano presenti i suoi lavori, insieme a quelli di altri fotografi, che raccontavano le condizioni di vita degli sfollati interni nella regione del Kurdistan iracheno, a seguito della guerra contro Isis iniziata nel gennaio del 2014. Ho pensato di non conoscere nulla, davvero niente di quello che succede nel mondo. Le notizie di guerre lontane si susseguono e si dimenticano presto, le immagini che i canali di informazione diffondono sono così impersonali e scorrono davanti agli occhi come fossero scene di un film. Ma il racconto fotografico di Twana e degli altri fotografi curdo-iracheni mi ha imposto una torsione dello sguardo, una prossimità con i protagonisti di questi scatti, molto spesso ritratti in attività di un quotidiano ormai deprivato anche solo di una parvenze di normalità, stravolto dalla guerra, dalla povertà e dal degrado.

Ho pensato che nel nostro paese si parla tanto di immigrati, profughi, richiedenti asilo, ma se ne parla come di entità senza volto né nome, numeri, nazionalità, colore della pelle, religione, ma le loro storie di vita sono spesso taciute, sconosciute e perdute in mezzo alle voci che si contendono un dibattito che non sa più accogliere e pensare un’umanità attraversata dagli stessi desideri e dagli stessi primari bisogni. Barricate e fazioni, il noi contrapposto al loro, al diverso, a chi viene da lontano ma anche a chi non la pensa nello stesso modo, e in mezzo le donne e gli uomini che sprofondano sempre più giù, nel vuoto, senza che nessuna narrazione della realtà sappia tenere insieme gli opposti, ricomporli, ridefinendosi come un racconto a più mani dove nessuno, da solo, può dirsi al riparo nella propria confortevole monca verità. Per questa ragione ho chiesto a Twana di raccontarmi la sua storia, quel pomeriggio di aprile, in un bar costellato di specchi dalle cornici arrugginite, in cui i nostri riflessi erano moltiplicati all’infinito. Con noi c’era l’amico scrittore Silvio Valpreda, il cui prezioso aiuto è stato fondamentale per aiutarmi a comprendere e a tradurre quanto Twana diceva in inglese. Abbiamo scelto questa lingua perché lui avesse l’agio di esprimersi in tutte le sfumature possibili, quelle che una conoscenza ancora iniziale dell’italiano non gli avrebbe consentito. Questa è la sua storia, che ha accettato di rendere pubblica solo da poco, e alla quale seguirà una nuova intervista che narra quando successo negli ultimi due anni, dopo che la richiesta di Twana è stata esaminata dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.

PUOI RACCONTARCI QUALCOSA DI TE, DESCRIVERTI IN BREVE? DA DOVE VIENI, CHI SEI?

Mi chiamo Twana, sono nato nel 1988 in un paesino del Kurdistan iracheno, Qalladze, che si trova esattamente al confine con l’Iran. Il confine tra Iraq e Iran divide uno spazio che è sempre Kurdistan, sia da un lato che dall’altro, e per questo molte famiglie si ritrovano separate dalla frontiera.
Sono fotografo e dall’ottobre del 2017 vivo a Torino come richiedente asilo politico.
Nel 2006 ho trovato una vecchia scatola polverosa contenente foto e negativi. La scatola, custodita da mia madre, conteneva l’archivio fotografico di mio padre. Lui è morto durante la rivolta curda contro Saddam Hussein nel 1992. Non conoscevo il suo passato come fotografo. Il giorno dopo aver trovato la scatola, ho deciso di diventare un fotografo come mio padre. All’inizio ho lavorato nel cinema e dal 2011 ho iniziato a collaborare con Metrography (https://metrography.photoshelter.com/), un’agenzia indipendente di fotografia irachena. 

Nel 2012 ho realizzato un reportage sulla sindrome di down nella regione curda dell’Iraq e ho vinto il premio giornalistico “Open Eyes”. Nello stesso anno sono stato invitato al Festival di fotografia di Tbilisi e negli anni dopo a quello di Perpignan in Francia. Quest’anno ho presentato a Torino una parte della mostra di “Over my Eyes”
(http://darstprojects.com/over-my-eyes-storie-of-iraq/e) e un nuovo progetto, dal titolo “Dodici Ore” (http://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2018/05/mostra-r…), che raccoglie le mie prime foto a Torino. Si tratta di un tributo, frutto del mio personale sguardo di migrante, alla città in cui mi trovo a vivere adesso come richiedente asilo. Con questo progetto ho voluto anche dar voce a chi vive la mia stessa condizione. Dodici ore sono il tempo che ho impiegato a decidere di diventare un fotografo come mio padre e di fermarmi a Torino per una nuova vita.
Nella mia esistenza sono stato un rifugiato ben tre volte: la prima quando avevo meno di un anno, nel 1988, e il governo iracheno guidato da Saddam Hussein cacciò via tutta la popolazione curda e distrusse la mia città. La seconda volta nel 1991, quando ci fu una grande rivolta dei curdi, che riuscirono a rientrare a Qalladze, approfittando della campagna militare dell’Iraq contro il Kuwait e del conseguente spostamento delle energie militari in quella direzione. Conclusa questa guerra, però, Saddam ritornò a occuparsi del Kurdistan, e i curdi decisero di non combattere, preferendo fuggire in Iran. Tra di loro c’ero anche io con la mia famiglia. La terza volta è stata nel 2017, quando sono arrivato in Italia.

PERCHÉ HAI LASCIATO IL TUO PAESE?

Sono stato invitato a partecipare a un foto festival in Francia, proprio nel periodo in cui era in corso il referendum per l’indipendenza del Kurdistan. Quando è stato il momento di rientrare, ho incontrato grosse difficoltà, tutte le vie di ritorno erano chiuse, perché a seguito di quel referendum ci sono stati gravi disordini e instabilità politica. Non avevo un progetto migratorio, quando sono partito per l’Europa non pensavo di restarci, però tutto è cambiato velocemente, mi sono reso conto di quanto rientrare in Iraq fosse rischioso, soprattutto per via del mio lavoro di fotoreporter e giornalista. Già prima di allora l’attività di giornalista era molto pericolosa. Il mio progetto originario era di allestire una mostra itinerante in giro per l’Europa, dopo la partecipazione al foto festival, quindi concluso il mio intervento in Francia mi ero spostato a Praga e poi avevo raggiunto degli amici in Italia. Nel frattempo però il mio visto e i miei documenti stavano per scadere, e mi sono ritrovato nella condizione di sfiorare l’irregolarità. In Iraq ho una figlia, e per questo nonostante i pericoli ero intenzionato in un primo momento e rimpatriare. Poi ho riflettuto su come fosse una scelta migliore rimanere in Europa, soprattutto per il futuro di mia figlia. L’Iraq è un luogo pericoloso per crescere, per questo ho deciso di costruire qualcosa qui, per poter dare la possibilità alla mia bambina di raggiungermi e di vivere serenamente. Ho compreso di essere fortunato a trovarmi già da questa parte del confine quando migliaia di persone della mia città, tra cui molti amici, stavano cercando di scappare, rischiando la vita e facendo grandi sacrifici anche economici per potersi pagare il viaggio.

PUOI PROVARE A RACCONTARE COME VIVEVI IN IRAQ?

Io avevo una casa e un lavoro. In linea generale non mi sentivo del tutto sicuro, anche se conformandomi a certe regole credevo di non essere in pericolo di vita. Prima della guerra non avevo grandi difficoltà di ordine materiale, non ero povero, i problemi erano relativi alla mia sicurezza e a quella della mia famiglia. Poi le cose sono cambiate. La mia città era abbastanza distante dal fronte, ma il fronte si muoveva con tale velocità e imprevedibilità, e anche il volto dei nemici cambiava repentinamente, che si viveva in un costante stato di rischio e paura, giorno dopo giorno. L’insicurezza di cui parlavo si manifestava concretamente negli spostamenti e negli aspetti economici della vita quotidiana. Ad esempio, mia moglie è insegnante, ma da tempo a scuola non pagano più gli stipendi a causa della guerra, quindi lei continua a lavorare da volontaria. Come dicevo, anche nel mio lavoro si respirava un clima di rischio continuo. Un mio amico e collega fotografo si era avvicinato al fronte ed era stato ferito alla testa dal colpo di un cecchino di Isis. Siamo stati tre giorni in ospedale in attesa di sapere se sarebbe sopravvissuto, e per fortuna si è salvato. Il direttore della mia agenzia fotografica è stato rapito da Isis e di lui non abbiamo più avuto notizie, non sappiamo se è vivo o se è morto, è sparito nel nulla. Anche non occupandosi di politica, ma solo di cronaca, un fotoreporter o un giornalista rischiano la vita, per il solo fatto di poter essere testimoni di quanto succede.
Isis vuole il controllo economico e religioso del Paese. La gente comune è divisa in due fazioni diverse: la maggioranza pensa che Isis sia una realtà negativa e non incarni assolutamente lo spirito religioso autentico dell’Islam, che è orientato alla pace; c’è però una minoranza numericamente considerevole che pensa invece che Isis stia facendo delle cose buone e quindi sarebbe favorevole a una sua espansione.

CHE COSA SIGNIFICA APPARTENERE AL POPOLO CURDO? QUALI SONO I TRATTI PECULIARI DELL’IDENTITÀ CURDA?

I curdi sono la più grande nazione senza terra, senza una patria: la diaspora curda interessa oltre quarantaquattro milioni di persone, che si trovano a vivere in Iran, Iraq, Siria, Turchia e in molti altri paesi del mondo, perché a ogni guerra il popolo curdo è fuggito in cerca di riparo in altre nazioni. I curdi hanno una lingua comune e ci sono città intere dove si parla solo curdo. La maggioranza dei governi non riconosce l’appartenenza al popolo curdo, stabilisce piuttosto la nazionalità in relazione al luogo di nascita: l’Iran e la Turchia considerano i cittadini delle aree curde rispettivamente iraniani e turchi. Fino a poco tempo fa, invece, in Iraq i curdi avevano una moderata autonomia. In Iran nemmeno i nomi curdi sono permessi, si possono avere solo nomi persiani.
Secondo me gli ingredienti dell’identità curda sono: la lingua, la religione islamica che è maggioritaria (anche se è comune alle altre popolazioni che condividono la stessa nazione), la musica, le danze, le feste tradizionali, e l’amore per le montagne. C’è un detto curdo che recita più o meno così: il mio migliore amico è la montagna! Le montagne rappresentano per i curdi anche un luogo di protezione, in cui rifugiarsi per scampare alle persecuzioni.

QUAL È LA CONDIZIONE DELLE DONNE CURDE RISPETTO AI DIRITTI CIVILI?

In generale la condizione delle donne curde non è molto diversa da quella delle donne islamiche dei paesi in cui vivono. All’interno del partito comunista siriano (YPJ) esiste una frangia di combattenti donne. Nel Kurdistan iracheno c’è un piccolo partito simile, ma non ha lo stesso peso di quelli in Siria e in Iran. I partiti al governo che rappresentano la maggioranza delle persone sono centristi non religiosi, e sono gli stessi che hanno guidato le rivolte nel 1991, ma non sono così attenti alle questioni di genere.

PERCHÉ HAI SCELTO DI VIVERE IN ITALIA? QUAL È STATO L’IMPATTO CON LA NUOVA REALTÀ?

Quando ho preso la decisione di rimanere in Europa avevo la possibilità di scegliere dove fare richiesta per lo status di rifugiato, perché mi restavano alcuni giorni di visto valido: ho scelto l’Italia perché amo la sua cultura e perché qui ho diversi amici, in particolare due con cui ho lavorato in Kurdistan, Stefano Carini e Dario Bosio, che sono torinesi. Tuttavia quando ho optato per l’Italia non avevo idea della burocrazia che c’è dietro a questo iter, e adesso mi trovo da mesi in attesa di sapere se la mia richiesta sarà accolta o meno. In questo spazio di sospensione e stallo in cui sono costretto, ho posposto ogni ragionamento sul mio futuro a quando avrò ottenuto i documenti. I primi tempi sono stato ospitato da Stefano e da sua sorella Alice, poi sono entrato a far parte del progetto SPRAR e vivo a Mirafiori, insieme a altri migranti, e sto frequentando il CPIA e imparando l’italiano.

In realtà mi lega all’Italia anche un’altra storia, che risale al passato. Quando ero adolescente, orfano di padre, tramite un’associazione italo-curda sono stato adottato a distanza da una famiglia italiana, che vive a Ivrea, casualmente proprio vicino alla città, Torino, nella quale mi sono stabilito adesso. Durante il viaggio itinerante in Europa per esporre il mio lavoro fotografico, ero passato a salutare questa famiglia, ma ancora non sapevo che mi sarei dovuto fermare in Italia. Erano trascorsi quindici anni senza avere più contatti con loro. Al comune di Ivrea il mio padre adottivo a distanza, Franco, aveva organizzato una presentazione del mio lavoro fotografico: il giorno dopo la presentazione è crollato tutto il mio programma e sono rimasto bloccato qui. Non esiste un vero rapporto famigliare con loro, anche se rivedersi dopo tutti quegli anni è stato piacevole. Nell’agenzia fotografica in cui lavoravo, inoltre, c’era un collega proprio di Torino, Stefano: un giorno, parlando, gli ho confidato della mia esperienza di adozione a distanza, ed è stato lui a dirmi che Ivrea è vicino a Torino. A Torino e in Piemonte ci sono molti curdi, ma arrivano quasi tutti dalla Turchia.

È strano, quando sono arrivato in Europa il mio era solo un viaggio di lavoro, vedevo tutto intorno a me con gli occhi di un turista, era tutto nuovo e diverso, ma queste novità e diversità erano piacevoli, guardavo tutto dall’esterno, insomma. Quando la mia situazione è cambiata, ho sentito un forte shock rispetto a questa nuova realtà nella quale non mi trovavo più a essere un osservatore qualsiasi, ma un immigrato, e con quelle diversità mi sono trovato a fare i conti direttamente. La testa è stata assorbita da una serie di problemi pratici da risolvere, come fare a sopravvivere in un nuovo paese, e soprattutto come aiutare la mia famiglia rimasta in Iraq, volevo risolvere tutto subito, e per un periodo mi pareva di impazzire. Allora ho dovuto farmi coraggio per bloccare il flusso di questi pensieri, ho dovuto controllarli e arrendermi a questa situazione di attesa forzata, nella quale non posso fare nulla di concreto, finché non avrò documenti. È una lotta per non impazzire, per non farmi risucchiare da questo vortice di preoccupazioni. I miei amici di qui hanno cercato di coinvolgermi nelle loro esistenze, mi hanno accolto nella vita e nelle attività delle loro famiglie per aiutarmi a non restare solo con i miei pensieri.

Io sono curdo, e noi curdi portiamo già una ferita anche nel paese in cui siamo nati: non abbiamo una nostra patria. Ho conosciuto anche in Iraq la sensazione di essere straniero, e non era molto diverso da essere straniero qui. In realtà non ho sentito grosse pressioni e differenze in Italia, mi è capitato di più in altre nazioni d’Europa, e mi sono sentito bene accolto. Per un curdo senza patria il sentimento del razzismo è percepito come una vergogna. Dove vivo a volte mi sento a disagio per certi modi di fare degli altri ospiti immigrati, che appartengono a culture diverse dalla mia, ma non ho mai provato razzismo nei loro confronti. Tutti vogliamo solo un futuro migliore.

 

(Intervista raccolta nel 2018)