Karlheinz Stockhausen

“con la cura di una persona che ama”

a cura di Guido Michelone

In questo 2024 che volge al termine, le milanesi edizioni ShaKe pubblicano il volume Testi sulla musica elettronica e strumentale (in terza pagina l’ulteriore sottotitolo esplicativo 1952-1962 – Saggi sulla teoria della composizione): ma in copertina campeggia, grazie a una grafica bellissima, l’autore: Karlkheinz Stockhausen. Sì, proprio lui, il musicista tedesco nato a Kerpen il 22 agosto 1928 e morto a Kürten il 5 dicembre 2007, universalmente riconosciuto dai critici, musicologi, colleghi, intellettuali, tranne qualche rarissima eccezione, tra i compositori più all’avanguardia dell’intero Novecento, grazie al pionieristico lavoro sulla musica elettronica, sull’alea nella composizione seriale, sulla musica intuitiva e sulla spazializzazione del linguaggio sonoro.

Il testo curato da Massimiliano Viel e tradotto da Irina Scelsi risulta subito un documento essenziale onde capire la breve rapida escalation dell’Elektronische Musik e più estesamente della ricerca post-weberniana, attorno alla cosiddetta Scuola di Darmstadt, con Luciano Berio, Pierre Boulez, Bruno Maderna, Henri Pousseur, Luigi Nono. Si tratta del primo di una serie di otto volumi già pubblicati (postumi) in Germania, che vanno a costituire un’enorme riflessione teorica, critica, estetica dell’artista in parallelo e anche quale sbocco di un‘altrettanto intensa attività creativa (quasi tutta edita su spartiti, dischi, video). Questo primo blocco di scritti corrisponde al periodo in cui si sviluppa appieno proprio il linguaggio sonoro elettronico via via inteso quale prassi rivoluzionaria per cambiare utopisticamente non solo la storia della musica, ma il cammino dell’intera umanità.

Nel testo perciò si leggono capitoli riguardanti il lucido pensiero dell’autore via via sui fondamenti della musica elettronica, sulla spazializzazione del suono, sulla scrittura musicale, sulla percezione e sull’analisi di musiche del passato, con precipui riferimenti ad Anton Webern e persino a Claude Debussy, riletti per valorizzarne le nuove invenzioni del primo e l’afflato modernista del secondo. Nel libro c’è pure spazio agli interrogativi, con immediate risposte, che connotano la poetica di un compositore sui generis, in grado di influenzare l’intero panorama artistico e di incuriosire persino gli esponenti e il pubblico del jazz e del rock più avanzati. E unitamente alla critica degli autori a lui contemporanei, Stockhausen affronta altresì i temi della composizione strumentale ed elettronica, della notazione, della spazializzazione e di una teoria generale della forma che sono in seguito sviluppate in opere come Kontakte, Gruppen e Momente.

Testi sulla musica elettronica e strumentale diventa subito oggetto di recensioni entusiastiche a partire da Carlo Maria Cella, il quale su «Cult Week scrive»: “Il volume della ShaKe riempie una lacuna bibliografica italiana: nei pur impegnativi saggi di Stockhausen si ritrovano le chiavi per capire a fondo un compositore che, discusso e perfino detestato in vita, ha conquistato dopo la sua morte (2007) lo status di creatore fra i più liberi e ‘universali’ della modernità”. Andrea Bisicchia su «la Libertà» analogamente commenta: “ Considero il volume edito da ShaKe una opportunità per ritornare a riflettere su cosa sia un’opera d’arte al di fuori dei canoni tradizionali, di come possano esprimersi i suoni autonomamente, di come, la creatività, appartenga al nostro mondo interiore, di come il destino dell’umanità dipenda dalla sua attività creativa e della sua capacità di far coincidere il ‘sentire’ con l’essere”.

Forse però l’analisi più riuscita è quella di Oreste Bossini per «il manifesto»: “Cosa rende – a distanza di sei, sette decenni – questi scritti del primo Stockhausen così interessanti? Per esempio il fatto che, a partire da Kreuzspiel, composto nel 1951, la sua produzione musicale sia sempre stata diligentemente affiancata da una riflessione teorica, che ha trovato la sua espressione più compiuta nella rivista «die Reihe» (La serie), da lui curata insieme al fondatore, nel 1955, Herbert Eimert, compositore e musicologo della vecchia avanguardia, che dopo la guerra era stato chiamato a riorganizzare la radio di Colonia, e in questa veste ne aveva convinto i dirigenti a allestire nel 1951 uno Studio di musica elettronica, destinato a diventare la roccaforte delle ricerche di Stockhausen, e il laboratorio di nuovi processi compositivi che nel corso degli anni Cinquanta hanno completamente trasformato il panorama musicale. Chiusa nel 1962, «die Reihe», è stata una sorta di cerniera tra la musica d’avanguardia del primo Novecento e i giovani compositori del dopoguerra, che sembravano essere usciti dal nulla, senza radici o influenze evidenti nella generazione precedente.

Insomma questo libro finalmente rende giustizia a un grande artista “di volta in volta – per usare le parole di Viel – additato come kitsch, elitario, intellettuale, naif, inascoltabile, troppo semplice, antiarmonico, neotonale, nazista, esterofilo, pazzo, antiespressivo. Insomma di lui e della sua musica è stato detto di tutto, ma questo è il prezzo da pagare per chi decide di smettere i panni civili per diventare non semplicemente una figura pubblica, ma un simbolo, un bersaglio in piena luce, specie se, come in questo caso, si tratta di una personalità complessa e non facilmente riducibile a un solo semplice stereotipo di massa e che è quindi perfettamente adattabile alle necessità di chiunque voglia costruire una propria identità”.

Per concludere ha ragione Stockhausen quando afferma che “La musica elettronica dà il meglio di sé quando suona come musica elettronica, cioè quando comprende, per quanto possibile, solo suoni e combinazioni sonore unici e liberi Da associazioni, che insomma ci facciano pensare di non averli mai uditi prima […] L’umanità, in tutta la sua diversità, sta lavorando a un’opera unica di autoperfezionamento. Ogni invenzione, ogni sforzo della creatività vi contribuisce, purché nasca dall’amore e venga svolto con la cura di una persona che ama”.