Ritratto dell’artista da bimbominkia

C’è qualcosa di più stucchevole di un impiegato dell’intrattenimento che si crogiola nel sentirsi definire (o nell’autodefinirsi) artista?
Non sarebbe più opportuno glissare con un buon “Preferirei di no” (meglio se nell’originale “I would prefer not to”, così poeticamente abile a eludere tutti i significati possibili, tranne quello di saper prendere le distanze da qualsiasi forma di accordo)?
Il mantra di Bartleby, lo scrivano di Melville, sarebbe il distinguo perfetto per sgusciare da una delle paludi più perniciose che inquinano l’atto della creazione: la commistione fra l’artista e il pubblico. Ammiccamento, piacioneria, connivenza: tutto ciò che declassa l’artista a (quando va bene) artigiano.

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Posso parlare del mondo che conosco meglio, se non altro per gli anni di quotidiana frequentazione; quello della musica che reclama lo status di arte. E della sua corte. Un universo di frutta candita in cui muovono figure complementari, in una sorta di mutuo sostegno, quasi tutte con lo stesso comune denominatore.
Il sedicente intellettualoide, che ha azzeccato qualche lirica a effetto o una struggente melodia. Il sedicente critico, che produrrà rapidamente la doverosa velina. Il sedicente pubblico, massa ineducata e indistinta, purché tribù.
Nell’alveare sbattono le loro ali anche altre figure di contorno: gli asfissianti uffici stampa, i viscidi promoter, gli imbucati, spesso (sedicenti) creativi dall’indole fancazzista.

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Suvvia, perché non prendiamo queste cose per quello che sono? Prodotti di cosmesi culturale, più o meno onesti, più o meno innocui, più o meno divertenti. Nove musicisti su dieci non sono che una “copia di mille riassunti”: c’è bisogno di scomodare il concetto di arte?
Scommetto sia lo stesso per gli scrittori, i fotografi, i grafici, i poeti, i navigatori…

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L’aspetto più ridicolo dell’appropriazione indebita del termine artista è l’esibizione patologica del proprio ego nell’uso bulimico, assurdo e deleterio dei social network, luoghi che l’artista-wannabe ama frequentare con un presenzialismo direttamente proporzionale alla consapevolezza della propria inconsistenza. Uno spazio chiassoso in cui non risuona alcuna voce interiore e dove ci si affanna a costruire ponti, anziché farli saltare. Una Jamaa El Fna nella quale tessere subdoli accordi o praticare “furtivisme” nel senso meno nobile del termine. Un vuoto pneumatico in cui il guru di turno è sempre lì a spiegarti tutto, compresa la propria “arte”. Togliendoti il gusto della fatica di scavare, farti cassa di risonanza, partire per una personale scoperta (la figura del “musicista recensore di se stesso è una delle più esilaranti in cui ci si può imbattere frequentando Facebook).

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“L’arte deve elevare, non ammiccare” dice a muso duro il critico al (sedicente) pittore Keane nel film di Tim Burton. Così dev’essere: l’artista è custode di una visione profonda, nuova, lacerante e perciò creatrice. Non vive nell’insaziabile fame dell’abbraccio compiacente di una massa sconosciuta, abituata a fruire l’arte dagli scaffali di un supermarket. L’aspirante artista è solo; lo sguardo non è rivolto alle attese del pubblico. Se è incapace di mantenere un solco, una distanza rigeneratrice, di spezzare gli equilibri raggiunti e dilapidare il valore capitalizzato, ha già rotto un patto con se stesso prima ancora che con i soggetti con cui desidera (in)trattenersi.

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E’ vero che fare arte significa anche mettersi davanti a un pubblico e agire nell’atto di comunicare. Questo però ha a che fare con il desiderio di conquistare il riverbero di un’anima, non di aggiungere una cifra al pallottoliere dei click o alla percentuale di audience. Non a caso l’industria ha imparato a muoversi con tempismo, nel momento esatto in cui c’è da trasformare la visione creativa in un gadget (in attesa di quello successivo).

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Riserviamo l’ultima pennellata a una sottocategoria. Quella che ama declamare quotidianamente la propria integrità da una parte, mentre dall’altra non fa che evidenziare la spasmodica attesa del momento in cui, finalmente, avrà monetizzato: una canzone a uno spot, la presenza al Festival di Sanremo, nella giuria di un contest o in una classifica di fine anno. Sono persone che non sanno da che parte stare e lo si vede dalla profusione di distinguo, quando si trovano a giustificare l’ingiustificabile.
L’aspirante artista non ha un’autostima così bassa. E, nel caso, si presenterebbe al bivio con in testa, nel cuore e sulle labbra le parole dell’irremovibile scrivano di Melville.