Interviste
Ritratto dell’artista da (non più) giovane
Parlare di massimi sistemi con semplicità disarmante.
Intervista ad Amerigo Verardi circa il suo nuovo e bellissimo doppio album “Hippie Dixit”
In questo periodo ho deciso di fare una cosa semplice e complicata allo stesso tempo: regalare del tempo. Alle persone, certo, ma anche alle cose che mi transitano in testa. Farle sostare, nel senso di lasciarle lì con consapevolezza, ascoltarle e contemplarle. Ci sto provando almeno, come ho tentato tante volte in passato senza venirne concretamente a capo. Mai come in questo periodo ho la sensazione di non averne, di tempo. Un sacco di cose da fare e da fare tutte insieme. Ma anche il sottile sospetto di destinare troppo tempo a distrazioni sterili e perniciose che, alla fine, fanno venire ancora di più la voglia di metterci mano una volta per tutte. Questo preambolo ha a che fare con l’articolo che vi state accingendo a leggere, una riflessione che ha richiesto tempo. Quello che Amerigo Verardi si è dato per creare e realizzare il disco. Quello che mi sono ritagliato io per ascoltarlo: un tempo non condivisibile con altre occupazioni. Nel senso che non puoi prestare ascolto a una musica che ti fluisce lentamente dentro e sa portarti lontano e nel frattempo cuocere la pasta o smadonnare con le lucine aggrovigliate dell’albero di Natale. È un tempo trascorso altrove che ti chiede comunque di restare vigile con la musica, tra i colori di una psichedelia che è tutt’altro che straniamento e fuga, piuttosto un modo diverso di stare nel proprio mondo e nel proprio tempo. Dove l’immaginario conta almeno quanto la realtà, o meglio: aiuta a comprenderla. E invita, cosa semplice e complicata allo stesso tempo, a metterci mano. Alla tua realtà, sia inteso, non a quella degli altri. E poi, non ultimo, il tempo che serve adesso a voi per leggere tutta questa intervista, che si porta in dote una lunghezza già a colpo d’occhio scoraggiante ma che, tuttavia, mi sentirei io per primo di consigliarvi di leggere. Hippie Dixit (gran bel gioco di parole) è il pretesto per questa chiacchierata: un doppio Cd di 14 canzoni, parte di un progetto più articolato che si è concretizzato attraverso un crowdfunding chiaro, preciso, trasparente. Un album di canzoni con cui l’artista brindisino festeggia i suoi primi trent’anni di carriera.
Quella che segue è una delle sintesi possibili di questa chiacchierata, nella quale io e il mio interlocutore ci siamo regalati del tempo (che forse nemmeno avevamo) e attraverso questo tempo ne usciamo entrambi più ricchi. Dato che al telefono Verardi scambia la mia voce per quella di un ragazzo poco più che trentenne, lo avverto subito che chi gli sta parlando è un tizio con qualche anno in più dei suoi cinquantuno. “Qualcuno afferma che il rock and roll rallenta il processo di invecchiamento” gli dico. “Può essere, sicuramente lo fa la musica in generale” mi risponde. A chiusura dei preamboli, dopo avergli rivelato i nomi dei miei due insegnanti di chitarra nel lontano 1975 (artisti che sono diventati anche suoi personaggi di culto, uno dei quali lo ritroveremo alla fine dell’articolo), il clima ha maturato la giusta empatia per iniziare con le domande.
Vorrei partire dalle parole che mostrano già da sole un’ambivalenza tra il reale e l’immaginario: qual è stato il tuo approccio ai testi nelle canzoni del disco?
Non molto differente da quello che ho avuto per la musica: il mio principale proposito era amalgamare il tutto, renderlo non distinguibile o separabile. Sono molto più felice quando le parole funzionano perfettamente all’interno della musica, perché è la musica che ti dà reale forza e fa arrivare le intenzioni fino al possibile obiettivo; è la musica che scaglia così in alto le parole, non il contrario. Questo per quanto riguarda i musicisti, i cantautori: entrambe le cose devono funzionare sullo stesso piano. Nello specifico, quello che guida i testi e la musica è questa doppia valenza, come dici anche tu: il fatto di essere molto legati a ciò che si ha intorno alla terra, soprattutto a se stessi, alla propria coscienza, alla persona, alla propria consapevolezza; e contemporaneamente l’importanza di uscire fuori da questa presenza nel mondo e nel quotidiano, per lanciare un ponte, una specie di arcobaleno e raggiungere altri piani che noi normalmente non prendiamo troppo in considerazione.
Cosa ci impedisce di farlo naturalmente?
È proprio il mondo occidentale che ci tiene lontani questi piani, da queste sfere, che non fanno però meno parte dell’essere umano di quanto invece non lo faccia il suo conto corrente o il sindaco che governa la sua città. L’album gira continuamente intorno a questi due poli, passa da una parte all’altra, immergendosi e offrendo possibili stimoli, possibili letture, senza essere troppo didascalici, perché questo non mi piace. È importante dire anche che chi ascolta ha una grandissima funzione ed è giusto che abbia la stessa importanza dell’artista che ha concepito l’opera. È l’ascoltatore che la completa e che gli dà quella parte mancante che normalmente un artista deve lasciare aperta in qualche modo.
Come si riesce a far emergere la parola attraverso la musica in un contesto in cui entrambe sono diventate, per molti, solo chiasso?
Prima di tutto dando molta importanza ai pochi che sanno prestare attenzione, che poi forse sono pochi solo se confrontati con la massa “barbara”, ma numericamente non lo sono affatto, e hanno qualità umane di sensibilità, emotività, intelligenza tali da poter sovvertire le sorti di quelli che sembrano essere i vettori che vanno in una sola direzione. Faccio molto affidamento su questi pochi perché ho in loro una grandissima fiducia. Non voglio dire con ciò che tutta l’umanità in generale è capace di pensieri alti, perché non la penso così, onestamente. Penso che chi ha queste facoltà, chi ha questa fortuna, questo privilegio di poter andare oltre con la propria mente e con la propria sensibilità, con la propria emotività e con la propria spiritualità, abbia il preciso dovere di ringraziare per queste facoltà e metterle in atto, sfruttarle per offrire stimoli positivi a chi ha intorno, oltre che a se stesso. Nutro sinceramente sentimenti di amore per tutta l’umanità, per gli animali, per il mondo vegetale, e per tutto quello che ci sta intorno, e non ho nessun problema a esprimere questo tipo di amore.
È un ambizioso richiamo al senso del ruolo di ognuno nella diffusione di qualcosa che incida concretamente nel contesto sociale…
So perfettamente che non siamo tutti in grado di godere appieno delle possibilità che ci sono state date. Sono consapevole del fatto che anche quelle persone che hanno queste capacità – e con queste io sarei un po’ più severo – non sempre le sfruttano, oppure finiscono per essere troppo coinvolte dal cinismo che c’è intorno, dall’arrivismo, dal materialismo, da tutti questi elementi che hanno sempre più corroso le qualità più belle dell’essere umano. Ecco, a queste persone vorrei dire: datevi una svegliata, perché potreste essere veramente voi il cambiamento.
Questo tentativo di agganciare i “pochi” buoni tu lo fai con un disco volutamente ambivalente, che ricorda anche i cantautori delle generazioni passate. Da una parte è un nuovo tassello nell’evoluzione del tuo linguaggio di musica pop, quindi accessibile, nulla di particolarmente cerebrale o difficile da approcciare. Al contempo, con i suoi cento minuti e 14 brani connotati da una complessità sonora fruibile a diversi strati, è anche piuttosto impegnativo…
Hai messo bene in luce tutte le ambivalenze, in questo caso con le generazioni passate di musicisti, che potevano essere per esempio Francesco De Gregori e Lucio Battisti, secondo me due punti cardine della musica, almeno per quello che riguarda il mio immaginario creativo, magico, musicale. De Gregori ha scritto e scrive ancora oggi testi tra i più belli e immaginifici che siano mai stati scritti. Ti confesso che in alcune delle sue canzoni io non so proprio di che cazzo stia parlando…
All’epoca, proprio per questo, era stato tacciato di essere volutamente criptico, quindi ambiguo e anti politico: gli hanno fatto pure il processo pubblico…
Vabbè, all’epoca tutto doveva essere veicolato attraverso un vettore politico e sociale, e quindi certamente il discorso di chi era nelle atmosfere magiche come De Gregori non era sempre ben visto. Che in realtà è esattamente quello che io adoro di lui, il fatto che ci si possa perdere nelle sue canzoni… Ascolto una canzone di De Gregori e faccio un giro in posti strani dove lui mi porta, perché interpreto momento per momento quello che sta dicendo, e ogni volta che ascolto lo stesso pezzo vado in un posto diverso; questa credo sia una capacità pazzesca che non tutti hanno, anzi che pochissimi hanno. Dall’altra parte, riconosco a Battisti la stessa qualità magica: il genio nello scrivere, nel comporre la musica, nel creare qualcosa che contemporaneamente sia complesso e semplice. Non tutto quello che sembra semplice in realtà lo è davvero: se vai a scandagliare cosa c’è a fondo, a livello compositivo, dietro quei tre accordi, dietro quella melodia che sembra così semplice c’è proprio quella melodia, che prima non c’era, l’ha messa lì lui, ha creato questa cosa eterna. È lui che ha fatto “Anima Latina” con quei suoni riverberati che sembravano venire da un altro mondo. Questa è la qualità, lo spessore artistico di questi due artisti, e di un’ambivalenza, come dicevi tu, che poi non è così diversa. In realtà il pop, con la sperimentazione e con qualcosa di più complesso, può tranquillamente andare a braccetto, secondo il mio modo di vedere, dovrebbe essere così. Perché è vero che non tutto debba essere necessariamente per tutti, però il tentativo dell’artista è di rendere popolare (pop vuol dire quello) un messaggio che universale lo è realmente. Il messaggio nel mio album è talmente semplice e talmente chiaro che non ha bisogno di tante parole e di tante spiegazioni. È semplice, ed è per tutti. Ognuno poi, da lì si può spostare in altri mondi, approfondire ogni singolo ramo di questo messaggio.
Quindi, il tuo disco non è rivolto a un pubblico di nicchia…
No, anzi. A me non interessa fare un discorso esclusivamente sperimentale, per me sarebbe fin troppo facile. A livello tecnico lo potrei fare sia da solo, sia chiamando dei collaboratori. La mia difficoltà sta nel rendere il complesso semplice e renderlo alla portata di chiunque. Quindi, con un pezzo di 14 minuti e rotti come “L’Uomo di Tangeri”, il primo brano dell’album, io devo riuscire a portare a spasso per il brano anche mia zia, senza che si annoi, senza che pensi che qualcosa la stia aggredendo, che le stia facendo violenza; anzi, pensando che qualcosa la stia accompagnando a riconoscersi in qualche luogo magari non ancora visitato, ma che le appartiene completamente. Da un altro punto di vista, quello che deve passare è lo spessore intimo: voglio cercare di essere quanto più vero in quello che dico, vicino a quello che io sono in quel momento. Questa è l’unica responsabilità che sento, perché una volta che ho risposto positivamente a una domanda che mi sono fatto, credo che per chi mi ascolta non ci sarà nessun problema, nel senso che la semplicità, intesa nel modo più alto, è quella che ti permette di essere sempre in contatto con le persone nella maniera più naturale possibile. Io sono così e anche la mia musica in questo momento ha questa caratteristica.
Riesci a vivere di musica o sei costretto a scendere a compromessi che incidono sulla tua attività di musicista?
In rari periodi sono riuscito a vivere solo con la musica. Comunque è tosta in ogni caso perché non mi piace stare sempre sul filo, dover patire così tanto, dà una cattiva qualità al mio quotidiano e peggiora proprio la percezione delle cose. Soprattutto non mi piace sovraccaricare la musica di aspettative, non mi piace inquinarla troppo con le mie aspettative di lavoro.
È un classico per l’artista, ma oggi questo modus si è esteso e dobbiamo abituarci un po’ tutti a stare nell’incertezza, no?
Esattamente, la differenza è che prima con la musica potevi avere questi alti e bassi, comunque utilizzavi il tuo tempo a fare dischi, a fare tour e a fare quello che ho fatto io in passato e riuscivi a stare a galla. Mentre adesso, senza le case discografiche che ti fanno registrare un album nello studio di registrazione come vuoi e quando vuoi, che ti pagano l’albergo, la stampa, la copertina, l’ufficio stampa e ti mettono a disposizione il booking, un musicista deve tirare fuori i soldi dalle sue tasche direttamente. Stiamo parlando di grosse cifre: chi le ha? È un cambiamento molto chiaro, personalmente non mi lamento di nulla, ma quello che mi dà fastidio è che sia peggiorata o che possa peggiorare la percezione delle cose da parte delle persone. E questo, ovviamente, mette in mezzo la percezione dell’arte e quindi anche della musica. Peggiorare questa percezione significa accontentarsi di roba sempre più plastificata, sempre più standardizzata, quindi è così che poi le persone si “plastificano” anche loro. L’unica battaglia creativa che mi piacerebbe portare avanti con altri musicisti e artisti è proprio questa: noi abbiamo questo talento, questa possibilità, non sottostiamo a nessuna regola, facciamo esattamente quello che ci va di fare. Voi, se volete, ascoltate, e questa può essere una cosa buona per tutti, oppure guardate la televisione, ascoltate la radio commerciale e accontentatevi della vostra vita uguale a quella di chiunque altro in qualunque altra parte d’Italia o d’Europa. Penso sia molto importante dare un segnale diverso in questo momento storico.
Molto chiaro. Nella musica italiana, diciamo alternativa, ho visto però molti vivere una sorta di frustrazione permanente fintanto che qualcuno non abbia fatto fare loro quel “salto di qualità” tanto atteso, tipo Sanremo, il Festivalbar o comunque offrire loro un’audience più ampia, salvo poi giustificarsi di questo col proprio zoccolo duro. Tuttavia, tu non hai nemmeno l’aria dell’eroe che non ha mollato, mi pare…
Parliamo degli altri che è più semplice: un’attitudine troppo legata al fattore successo e gratificazione può essere fuorviante da decifrare. Successo e gratificazione sono completamente differenti. Ho l’impressione che nelle giustificazioni la motivazione arrivi sempre dopo l’atto e la decisione, quindi sicuramente c’è un po’ di confusione. Ed è anche difficile rifiutare delle proposte che ti possono portare più popolarità, più a quello che un musicista rock, naturalmente portato verso le persone, desidera. Non sono una persona che ha un giudizio negativo facile sui comportamenti degli altri, per questo ti dico che per me è semplice parlare prima di tutto degli atri. Posso dirti che forse io non l’avrei fatto o forse avrei fatto la stessa cosa, non lo so. Ho fatto cose a 20/25 anni che oggi non farei. Le ho fatte, le ho pensate o solo desiderate, magari. Adesso ho altre necessità e il mio sguardo è altrove. Dipende anche da come cresci: se tra le tue abitudini ci sono comportamenti egocentrici o egoisti troverai motivazioni sul fatto sia giusto mangiarti tutto, quella è la tua necessità. Io apprezzo molto quelli che con il tempo cercano di limitare questa loro fame e queste loro pretese di arraffare tutto e magari riescono a dire anche qualche no. Porsi dei limiti può avere senso per la tua vita. Ti faccio un esempio: da quasi trent’anni sono vegetariano, per me è stata una decisione molto forte, non perché non mi piacesse la carne. Per ragioni del tutto etiche mi sono posto questo limite nell’essere un piccolo squalo del mondo occidentale e questa scelta ha guidato molte altre scelte che ho fatto nella vita e che sto ancora facendo.
Parlami della copertina del disco: una foto semplice e molto psichedelica, come tutto l’album del resto. Che tipo di psichedelia hai cercato?
Ho visto la foto su Facebook, sulla bacheca di una mia amica e le ho subito chiesto se la potevo usare per la grafica. È l’alba di un nuovo giorno, con la figura umana che cammina verso questa alba. Poi ci sono questi inserti, la montagna, il vulcano con una macchia misteriosa, ci sono più elementi che portano il significato altrove. Penso che il lavoro grafico sia molto psichedelico, mette in attivazione la mente e ti fa pensare proprio ad altri piani di lettura, è questa la cosa essenziale: al di là di quello che era stato detto, scritto e riscritto sulla psichedelia e che è stato anche registrato e pubblicato sotto quell’etichetta, è chiaro che la mia attitudine è fondamentalmente quella mentale, è quella la psichedelia che mi interessa.
Tenere la mente aperta e darle spazio, quindi?
Esatto, esplorare le possibilità della mente, della creatività, della fantasia. Esplorare le relazioni intime fra l’essenza degli esseri umani e l’essenza della musica. Sono sempre stato interessato a questa teoria delle super stringhe in cui si parla di tutte le cose che fanno parte dell’universo e del creato. Ognuna di queste super stringhe, una parte infinitesimale dell’atomo, ha una sua frequenza unica, quindi tutto è un mix di frequenze, e quando parliamo di frequenze stiamo parlando anche di suono, per cui noi emettiamo già un suono e, come calamite, siamo calamitati e calamitiamo suono. Non è un fatto casuale che per l’uomo la musica sia così importante, è la seconda lingua di qualsiasi popolo del mondo ed è capace di parlare linguaggi che le parole non possono esprimere. Noi siamo fatti di musica, io ho solo questo privilegio di poterla utilizzare in maniera così disinvolta. Quindi, so che quello che sto facendo non è soltanto un album di canzoni che raccontano di qualcosa o di qualcuno, ma è molto di più e molto più semplice. Così semplice che paradossalmente, la maggior parte delle persone che vive in questa parte del mondo non ci arriva e questo è il guaio. Si può chiamare psichedelia, misticismo, spiritualità, si può chiamare come vogliamo, secondo me è qualcosa che ci lega in maniera molto intima agli altri esseri umani, alle cose del mondo, anche a sfere e a piani che stanno oltre questo mondo. Dobbiamo semplicemente alzare un po’ di più le antenne. Se la psichedelia può servire a questo, ben venga.
Qual è l’espressione artistica che più di tutte ha influito sulla tua formazione e sulla tua sensibilità?
La musica. Prima dei quattro, cinque anni, ero un bambino molto difficile, che distruggeva tutto. Urlavo ed ero abbastanza squilibrato, nel senso che avevo proprio poco equilibrio. Il giorno in cui mi è stato regalato un mangiadischi e ho potuto infilare un 45 giri in questo aggeggio, quello che era stato il mio mondo fino a quel momento si è proprio bloccato ed è cominciata un’altra vita, è nata un’altra persona. E quando ho potuto per la prima volta avere una chitarra tra le mani e mettere insieme due accordi e una melodia, è nata un’altra persona ancora. Non c’è una cosa che può avermi influenzato più della musica, anche se amo tutte le forme d’arte, sono un grande appassionato di pittura per esempio, così come di letteratura e di cinema. Sono proprio preso da tutte le forme d’arte, sono stimolanti per me, la figura dell’artista è importante per questo. È la figura che dovrebbe essere da stimolo, anche per gli altri. Mi ci riconosco molto in questa tipologia d artista. Mi piace pensare di essere uno stimolo positivo per gli altri.
Il tuo disco mi ha ricordato molto il Battisti del periodo Anima Latina e la psichedelica pop britannica di Cope, Barrett e Hitchcock, ma anche il “Volo Magico N.1” di Claudio Rocchi…
Questo riferimento al disco di Rocchi è una delle cose che più è stata scritta e più mi è stata detta in queste settimane sul disco.È un disco che io conosco poco in realtà, l’ho ascoltato ma non lo conosco a memoria. Ho incontrato Claudio Rocchi nel 2012, l’anno prima che morisse, o meglio, che andasse via da questa terra o dal suo corpo, come preferiva dire lui. L’ho conosciuto perché l’ho invitato a un festival di cui sono direttore artistico, qui a Brindisi. Ho invitato lui e ho invitato anche Gianni Maroccolo in quell’edizione, ed è lì che è nata questa grande amicizia fra loro, che poi ha dato il via alla collaborazione per l’album che hanno realizzato insieme. Claudio è stato importantissimo anche per me, perché in quei tre giorni in cui è stato qui abbiamo parlato di tutto e di più, lui è una persona pazzesca. E mi ha anche consigliato delle letture perché gli avevo fatto delle domande specifiche. Delle letture che mi hanno cambiato veramente i connotati nel corso degli ultimi anni. Libri che poi ho regalato anche ad altre persone, tra cui altri ospiti che sono venuti al festival, come Riccardo Sinigaglia, uno dei più sensibili a questo tipo di cose.
Che libro ti ha consigliato?
Dopo quasi quattro ore di discussione sull’esoterismo e la spiritualità, di tutto e di più, io, lui e Gianni Maroccolo seduti a un tavolo di ristorante, alla fine gli ho chiesto: “Senti Claudio, ma se tu dovessi consigliare a una persona un libro in cui può essere riassunto un po’ tutto quello di cui abbiamo discusso in queste ore?” Lui ci ha pensato tipo due secondi, e mi ha detto “Il Kybalion”. Quindi segnatelo Pier, se non l’hai ancora letto.
AMERIGO VERARDI – Brindisi ai terminali della via Appia
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