Ruoli, funzioni e rischi nella fruizione della poesia

 

a cura di Pier Angelo Cantù

Collocata nell’universo che regola le relazioni umane, la diffusione della poesia è un processo che si può descrivere definendo le figure coinvolte e le loro dinamiche.

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Il poeta

Da un lato c’è chi scrive, il poeta, colui che mette nero su bianco un insieme di immagini e parole regolandole in una qualche “sintassi” (dal greco sýntaxis, syn “insieme” e tássein “ordinare”, “disporre”). Tássein ha un’accezione razionale: significa catalogare secondo schemi oggettivi. Molto spesso però, la poesia non usa la sintassi in questo senso, cioè l’ordine e la logica riconosciute come corrette nella prosa, ma si serve anche di anacoluti.

Il componimento in versi sta al di là dell’ordine sintattico: il poeta regala alle parole un ritmo.
La parola poesia deriva da poiein, in greco fare, nel senso di costruire come azione spontanea dell’uomo. L’uomo ha imparato a comunicare prima in forma poetica: quando la scrittura ancora non esisteva la poesia era recitata in metrica, imparata a memoria, quindi con un ritmo musicale.
Esprimersi in versi è una cosa molto più vicina alla natura umana, che nasce dall’esperienza autentica di vita. Nel processo di composizione, al pari del vissuto, alleato del poeta sarà la conoscenza del funzionamento della linguistica, soprattutto quella storica, e la triangolazione semiotica.

Nella scrittura poetica, il processo di mediazione ha mantenuto una maggiore leggerezza rispetto alla prosa: gli unici punti di contatto sono la ricerca della parola perfetta e dell’ordine in cui disporla.
Il poeta beneficia di una certa inconsapevolezza, un po’ come i personaggi di un cartone animato quando si trovano a camminare oltre un precipizio rimanendo sospesi. Finché non se ne rendono conto, proseguiranno il cammino nel vuoto come se niente fosse, con una sospensione lontana dalla realtà, una libertà che assomiglia all’aquilone che fa disegni nel vento. Nel momento in cui qualcuno (sé stessi o qualcun altro) li rende consapevoli, i nostri cominciano a precipitare.

Questo qualcuno, talvolta, è il lettore; più spesso, il variopinto mondo che compone l’industria della poesia, non sempre utile sua alla corretta fruizione, ma di questo parleremo più avanti.
Compito del poeta è essere se stesso in modo autentico e portare la sua essenza su un foglio bianco. Il suo rischio maggiore è non coltivare questa purezza, non averla mai avuta, oppure perderla per strada.

Rubando le parole a Leonard Cohen: “La poesia è un verdetto, non un’occupazione”.

 

Il lettore

Il ruolo di chi legge è un po’ più complicato: con la stessa inconsapevolezza deve fare spazio all’autenticità del poeta, alla sua intenzione originaria, così che in lui si crei una perfetta corrispondenza, arricchita dal proprio vissuto.

Non esiste, purtroppo, un corso di formazione tecnico per diventare lettore di poesia e saperla distinguere; ci si muove in una costellazione di elementi personali e strati di sensibilità. Il miracolo accade quando nel lettore si attivano coerenza d’animo e assonanza di stile verso il messaggio del poeta.

Essendo in gioco una miriade di variabili umane, la valenza delle parole nell’atto in cui sono lette da una persona potrebbe sfuggire a qualsiasi rimando oggettivo. Ogni lettore è una diversa cassa di risonanza, pertanto, ogni poesia risuonerà nel mondo in modo discorde.
Compito del lettore è empatizzare con l’essenza della poesia, non con elementi estranei ad essa che potranno, nella migliore delle ipotesi, fungere da veicolo per una più consona risonanza, oppure entreranno in gioco come fattori inquinanti.

Il rischio principale del lettore è scambiare per poesia ciò che poesia non è. Prendiamo il fenomeno che ha portato a sdoganare Guido Catalano come poeta, considerato tale da molti lettori semplicemente perché scrive parole su un foglio occupato a metà.

La responsabilità di questi equivoci è senz’altro da annoverare al fatto che, in Italia, sia evidente la bassa alfabetizzazione su cosa sia davvero una poesia e quindi per molti basta vedere delle parole scritte su una parte del foglio che parlano di baci e fiori, e subito scatta il radar “poesia”.
A complicare un po’ le cose, a moltiplicare i rischi e a intorbidire notevolmente questa chiarezza di scambio, entrano in gioco altri soggetti, nel bene e nel male.

 
L’editore  

Alcune tipologie di lettori, mossi da un amore incondizionato per la parola o da elementi, non meno nobili, che hanno a che fare con l’occupazione – c’è dignità anche in questo, il nostro non è un appunto morale, semmai un richiamo etico – si pongono come anello di mediazione tra poeta e lettore, pubblicando e diffondendo i libri. Non voglio fare qui la storia dell’editoria, solo evidenziare che oggi la vocazione dell’editore presenta molti più rischi rispetto al passato.

Non bastano, infatti, l’intenzione e la dedizione, bisogna innanzitutto darsi da fare per andare, con competenza, coerenza e forza di carattere, a scovare nuove voci, all’interno di un vociare chiassoso, che meritano di essere diffuse. Soprattutto, restituire al mercato il loro stile in ogni aspetto: dalla grafica, alla comunicazione, all’intreccio delle relazioni esterne nelle fasi di promozione.

Qui entrano in gioco l’identità e l’etica.

Da qualche anno, l’editoria sta manifestando derive distorte circa la sua identità originaria, un’identità che appare sempre più incerta e intorbidita. Di conseguenza, anche la poesia ha cominciato a soffrire di significato e di senso.

Il primo pantano sono gli intrecci e le relazioni tra editori e mercato. L’apice pernicioso di queste derive, che non vede del tutto esenti case editrici con un pedigree autorevole, è l’abitudine di farsi pagare dagli scrittori per pubblicare i loro libri, con formule più o meno subdole e dissimulate. Con tutto il rispetto, avete mai pensato alle conseguenze del fatto di accettare questa cosa come normale?
Nelle dinamiche inquinanti legate all’editoria, mi tocca includere altre figure di contorno: agenzie, uffici stampa e promoter sono il primo anello di un sonno della ragione che ha già cominciato a generare mostruosità e mostri. Anche in questo caso, non è mia intenzione puntare il dito contro nessuno in particolare, ma rilevare che, per forza di cose e per le leggi del mercato, più questi faranno “bene” il proprio lavoro, più aumenterà il rischio di allontanarsi dalla purezza.

Il recensore

In questa catena delle alterazioni di senso, molti recensori – con le dovute eccezioni – rappresentano l’anello successivo e, se vogliamo, il necessario sostrato delle figure descritte più sopra, specie quando si fanno contaminare da elementi estranei alla poesia, ma utili all’intreccio di relazioni con le case editrici, gli uffici stampa, i promoter, con la complicità dei social network.

Tra le trappole disseminate nel cammino del recensore, ci mettiamo anche la compiacenza degli stessi poeti, in quel terreno di confine tra se stessi e il proprio prodotto, quando ad esempio impegnati in prima persona nelle fasi di promozione, anche in quelle con modalità sottilmente ambigue.

Qui mi permetto una parentesi. Sono stato per venticinque anni critico musicale, conosco benissimo queste dinamiche e tutti i loro tranelli: amicizie incrociate, personaggi influenti da compiacere, sudditanze sottili, eccetera. In quel caso però, l’aspetto industriale della discografia è sempre stato più evidente, di conseguenza è stato anche più semplice decifrare i rischi ed evitare di accomodarsi ai tavoli sbagliati.

Sarebbe sufficiente ricordarsi del patto stretto con i propri lettori, veri sovrani e destinatari dell’attività di critico; non gli artisti, i promoter o gli editori.

Nella poesia, l’evidenza è più attenuata, me ne sono reso conto frequentandola prima come lettore, poi vedendola rimbalzare in modo sfuggente sui social e nei blog di tendenza. Ho preso a osservare meglio questo aspetto da quando la redazione di questa rivista ha cominciato a girarmi le mail che accompagnano i libri proposti in anteprima, accompagnati a loro volta dalla “preghiera di parlarne”.
Non scopro certo le carte dicendo che a volte ci si trova davanti a cose scritte in modo così imbarazzante che, vi giuro, fanno piangere il cuore e arrossire dalla vergogna. Ho chiesto lumi alla mia amata direttrice e la risposta è stata: Pier, le cose che vi giriamo sono anche già selezionate!
Perché rilevo questo aspetto nel capitoletto dedicato ai recensori?

Perché poi ci tocca leggere recensioni altrettanto imbarazzanti, che tracimano di parole vuote, contorsioni estetiche e sforzi creativi altisonanti pur di dare corpo a una vacuità che rimane comunque evidente, anche dopo queste incredibili performance. Col vago sospetto che servano a qualcosa o a qualcun altro, magari a regolare una precedente promessa o a garantirsi benevolenza in futuro.

Può darsi che il recensore corrispondente a questi tratti somatici lo faccia ingenuamente, forse solo per mantenere una particina in questo teatrino, così da giustificarsi uno spazio nel rito collettivo della marchetta di qualità. Ma questo non lo rende meno responsabile.
Molte recensioni si parlano addosso, con il linguaggio di un clan che si autosostiene. Ma perché nessuno è mai sceso dalla giostra impazzita per gridare che “il Re è nudo?”.
Non sto facendo un processo alle intenzioni su disonestà o purezza; dico però che se sei fin troppo dentro alla scatola può darsi che tu non riesca a vedere l’etichetta che sta fuori, se non con un encomiabile sforzo di oggettività.

Da fuori, invece, si vede tutto benissimo, ma ho motivo di pensare che anche da dentro se ne ha una certa consapevolezza, ma qualcosa obbliga a tacerne.
Questa bolla di sapone gigantesca farebbe anche sorridere, se non portasse la poesia inesorabilmente a schiantarsi, come l’anarchico di Guccini lanciato con la sua locomotiva verso un binario morto.
Ecco, questa corsa, secondo me, è da fermare!
Voglio dire: capita a tutti di essere amico o congiunto di un/a aspirante poeta e che vi piacciano le sue moine su Facebook o su Instagram, le foto con i libri di poesia collocati tra uno stacco di coscia e una camicetta casualmente molto slacciata, o fotografati in un preciso set a fianco del caffè della mattina. Un like sarà sufficiente e perfino onesto.

Fermatevi in tempo però, prima di intraprendere salti in avanti per diffondere oltre le righe la nuova Emily Dickinson, sfruttando la modesta quota da influencer con gruppetto al seguito che avete raggiunto o lo spazio che vi danno sul tal blog che sta prendendo piede.
Avete portato Franco Arminio sugli scaffali degli Autogrill generando il brand “Franco Arminio”, non vi sembra un danno sufficiente? Siamo sicuri che la poesia debba per forza finire in uno scontrino tra un Camogli e una Coca Cola?
Se scrivete su una rivista letteraria ricordatevi che la vostra funzione è facilitare la mediazione tra chi scrive e chi legge, senza alterare la voce dell’uno e l’udito dell’altro. Non è quella di creare fenomeni da baraccone spacciandoli per artisti con un passato meritorio e un futuro luminoso solo perché siete diventato il cocco di qualche editore.

Già ci pensano gli stessi poeti a tenere ben accesi i riflettori su loro stessi; già lo fanno fin troppo bene gli uffici stampa, i promoter e i circoli letterari, di cui parleremo dopo.
Voi, lì in mezzo, siate strumento di comprensione.
Non si tratta di stroncare a priori, ma di esercitare il rigore morale e la propria sapienza per cominciare a selezionare con coraggio e usare il talento per andarsela a scovare la poesia da presentare. Spiegarla, dischiuderla, mettendo in relazione le proprie allenate risonanze con la fruibilità o meno del testo, decifrandola nei limiti e rispettando il mistero dietro al poeta quale luogo sacro che non potrà mai essere del tutto svelato.

Non fraintendetemi: trovo giusto diffondere molta della poesia pubblicata, sia lirica che sperimentale. Eviterei però di partecipare all’obnubilante gioco del leccaculaggio che da anni gira intorno alla poesia e che si sviluppa in una sorta di tacito consenso. O di accomodarsi dietro i soliti dinosauri solo perché fanno tendenza e quindi un po’ della loro luce arriverà anche a noi.
Il mondo della poesia dovrebbe sentirsi accomunato da una sostanziale comunione degli spiriti, anche se gli stili in campo sono differenti e non a tutti piacciono allo stesso modo.
Per quanto mi riguarda, trovo piacevole anche una poesia scritta in modo barocco ma profondamente onesta; un po’ meno, un testo asettico che sa di copia e incolla o di parole prese a caso aprendo il dizionario, solo perché un amico importante l’ha già definita come next big thing.
Sarebbe, infine, sano tornare a praticare la nobile arte della correzione fraterna, aprire un po’ le finestre e far circolare l’aria sana dell’amorevole carità: se un poeta emergente e influente scrive, ad esempio, un post stupido e banale, anziché mettergli un like fategli presente che non dovrebbe sprecare il suo talento per uniformarsi al coro dei “buongiornissimo”. O anche, se smascherate un autore di fama e con grossi sponsor alle spalle nell’atto di rubare idee a giovani leve che non hanno voce, ditelo forte e chiaro!
Anche in privato andrà bene, per cominciare.

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Il circolo

Due parole anche sulle figure più ibride e sfumate di questo universo umano, che camminano su un terreno accidentato e non privo di rischi e responsabilità. Sono soggetti che sfuggono a una precisa identificazione, in genere perché già inclusi nelle categorie descritte sopra: gli appartenenti al “circolo”.

In un circolo, più o meno autorevole, più o meno virtuale, agiscono figure che comunicano tra di loro, si recensiscono tra di loro, si appartengono in modo escludente. Alla stessa stregua, il circolo parlerà con altri circoli.

L’ambizione è entrare, farne parte e restarci. Essere invitati nella giuria di qualche premio letterario, mostrare le proprie credenziali di fedeltà per ambire magari a dirigere una collana. Bisogna però meritarselo con un’incessante attività di autopromozione: ecco quindi entrare in gioco i social, il web, lo spazio ottenuto su una rubrica qualsiasi, le strizzate d’occhio.

E’ una specie di party che ha un suo linguaggio antropologico, inaccessibile agli esterni e che vede complici alla stessa stregua poeti, editori, recensori e parvenue.
In questi circoletti agiscono anche personaggi piuttosto vuoti ma provvisti di una qualche influenza, non si sa quanto meritata, che si prendono la briga di sponsorizzare, chissà perché, scrittori alquanto mediocri e senza spunti particolari. Va da sé che la mediocrità comincerà a diffondersi di conseguenza. Se, ad esempio, metti uno di questi a capo di una collana, il virus della mediocrità avrà più agio nel diffondersi in modo letale.

Il proliferare di questi circoli è un altro rischio: quale onestà d’animo potrà essere divulgata se ciò che muove è una sorta di obbligo esercitato tra simpatie incrociate, più o meno autentiche, o con atteggiamenti passivo-aggressivi, solo perché abbiamo bisogno di non essere sputati fuori dall’agognato club?

Ecco, quindi, come si arriva a scrivere solo ottime recensioni, a mettere la firma per promuovere una visibilità che qualcuno sicuramente valorizzerà, a condividere post in modo funzionale e piazzare like con calibrata strategia.

Questo articolo

La mia riflessione si inserisce nel contesto con una funzione dichiaratamente temporanea: permettere un confronto, per chi lo vorrà raccogliere. I fatti e i personaggi descritti sono puramente voluti.
Ho scritto queste cose rispettosamente, per amore della poesia e senza alcuna presunzione: una specie di pro memoria in primis per me stesso, dato che non mi ritengo del tutto esente dalle dinamiche evidenziate. Non voglio, cioè, pormi dalla parte di nessuna ragione, prendetela come la voce di un idealista appassionato che vuole provare a fermare la giostra. Perché a me fa girare la testa.

Ai poeti chiedo una cosa un po’ difficile: se mai vi capiterà di incappare in una recensione che ha descritto la vostra poesia in modo che anche voi stessi ritenete onestamente esagerato e che, pertanto, vi appare fasulla e magari figlia di un qualche “obbligo”, provate per una volta a mettere da parte il vostro lecito autocompiacimento e prendete le distanze. Che non vuol dire redarguire il recensore in pubblico, ma magari cominciare a fare un po’ di selezione all’ingresso, senza paura di perdere l’ultimo treno che vi porterà in futuro sull’agognato scaffale dell’Autogrill.
Ai lettori dico: utilizzate voi stessi come cassa armonica, amplificate il suono puro emesso dal poeta, fidatevi del vostro sentire. Non esiste di per sé poesia buona o meno buona, purché profondamente onesta, scritta per vocazione e con particolare cura per la parola.

Leggete poesia e praticatela, se potete (non sono parole mie, mi sono state dedicate da una giovane poetessa di grande talento).
Non abbiate vergogna nel dire, almeno a voi stessi, che quel libro che tutti stanno incensando vi sembra “una cagata pazzesca”. Non fatelo per i famosi 92 minuti di applausi, ma per esprimere ad alta voce il vostro onesto pensiero.

E nemmeno abbiate paura di modificarlo questo giudizio, purché sia sempre il vostro e non quello imbeccato da un circolo, da uno pseudo guru, o da un influencer molto figo.
Alle case editrici, agli uffici stampa, ai promoter, ai circoletti dico soltanto: guardatevi dentro, cercate la vostra autenticità e contribuite a moltiplicarla. Evitate il resto, se possibile. Soprattutto, non mortificate i giovani e meritevoli autori solo perché non hanno i soldi per pagare la vostra “magnanima” attività di stampatore. Contribuite, anzi, a scardinare questo paradigma che, tacitamente o meno, sta rischiando di passare per normalità. Scegliete molto bene chi mettete a dirigere le vostre collane, perché diffonderanno la poesia vera o la presunta tale.
Avete una funzione, bella, nobile, importante: liberare la poesia dalle sue catene e dagli inutili orpelli.
Fatelo!