Recensioni
Silvia Bre. Appunti per una “fisica” della poesia.
Silvia Bre. Appunti per una “fisica” della poesia.
(Rosa Riggio)
Silvia Bre
La fine di quest’arte
Einaudi, 2015
Nella fisica delle particelle la realtà è un’ipotesi, una probabilità. Perché esista, è necessario un osservatore e che le stesse particelle interagiscano tra loro. Il mondo è reale solo se qualcuno lo guarda. Qualcosa di simile accade in poesia. Leggere “La fine di quest’arte”, di Silvia Bre, significa assistere ad un evento che sai, parola per parola, verso per verso, che poteva non accadere, sai di essere al di qua e al di là delle cose, dentro il cerchio di uno sguardo che vede tutto. “Qualcosa vede tutto / e il nervo della vista è l’equatore / l’occhio guarda sé stesso con terrore // il cerchio di un confine non ci salva.” Il reale è chiuso dentro una visione, all’interno della quale prende forma. Ciò che ci tiene insieme è questo sguardo, questo è il dono: “Il regalo è uno sguardo che tiene / tutto”. La poesia, dunque, come ipotesi del reale, chiamato ad esistere per “vocazione”.
Se il nostro luogo è dove
il silenzioso guardarsi delle cose
ha bisogno di noi
dire non è sapere, è l’altra via,
tutta fatale, d’essere.
Questa la geografia.
Si sta così nel mondo
pensosi avventurieri dell’umano,
si è la forma
che si forma ciecamente
nel suo dire di sé
per vocazione.
Sì, questa poesia nasce per vocazione, perché si è chiamati. La poesia è, per sua autentica “natura”, chiamata a farsi, appunto, forma, anche nell’inconsapevolezza, nell’oscurità del suo accadere.
Devo scrivere bava
e dopo perla
e poi collana
chissà se mai compaia controsole
la pagina spiegata che le avvolga
qui tutto si dipana da due occhi
che nel bruciare si scavano una tana
ne va di un mondo
un punto che lo aspetta
e lo pretende senza
aver ragione
devo scrivere bava
e dopo perla
e poi collane.
Non si tratta di spiegare, perché capire è impossibile, perché “dire non è sapere”. Si tenta, tuttavia, perché lo si percepisce, di uscire anche dal campo visivo, compiendo un’operazione impossibile, non-raccontabile. Un’ipotesi. “[…] Ma forse anche le cose come stanno / hanno un ordine // tanto più vasto / da uscire dall’inquadratura // da non entrare mai / in nessuna mente // così il massimo di reale combacia / con l’astrazione pura // come quando la notte / essere e non essere / niente / si equivalgono.”
La poesia, come la fisica quantistica, è un mondo in cui domina un caos ordinato. E’ lo sguardo che rende possibile la realtà perché, come nel principio di inderminazione, è impossibile stabilire con esattezza cosa vediamo, la sua collocazione nello spazio-tempo, il suo moto.
Qualunque cosa sia la realtà, la poesia migliore è quella che procede per approssimazione, quella che fa, del proprio essere, “la misura del nostro stare”.
[…]
“tra le distanze immense in cui la mente è immersa
c’è un commovente approssimarsi al suo vedere.
[…]
La visione si misura dentro il perimetro della percezione, ma si esercita anche per qualcos’altro, qualcosa che ci riguarda tutti, nel nostro essere “pensosi avventurieri dell’umano”.
La brevità va riguardata
come la cerva vede
una costa innevata di montagna
da questo crinale esercita
alla morte, dall’altro
inosservata, salta.
Dunque, la parola inaugura, non appena viene pronunciata, il mondo e ciò che appare è uno strappo, un suono, sillaba in cui il nostro essere si pronuncia, mentre il “reale brilla” e “vedere tutto è un mancamento”.
[…]
costellazioni
strade in cui senza riconoscerle ti vedi
e dove ciò che avviene
è come pare
al punto di strappare dalla voce
nomi da inaugurare appena nati
chi li pronuncia è sveglio e dice giorno
come dicesse l’essere del mondo.
Rosa Riggio
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