Recensioni
Spegni il tuo amore incauto! – Fabio Michieli
a cura di Mario Famularo
(Euridice a Orfeo)
voltati e guardami! sei tu, sono io
mi interroga il silenzio disceso come nube
a cingermi e salvarmi dall’intorno vociante –
sì, voltati e guardami! io ti supplico:
spegni il tuo amore incauto! eternami nel canto!
annientami, dissolvimi – esaudiscimi, annullami
(Fabio Michieli, “Dire”, L’Arcolaio, 2019)
Non è lo sprovveduto entusiasmo di Orfeo, nei versi di Michieli, a restituire per sempre Euridice al mondo dei morti, ma la precisa preghiera della sua amata, che sembra quasi emanciparsi dal suo ruolo di musa ispiratrice.
La sua morte, in qualche modo, è funzionale al cantare del poeta, e restituirla alla vita non gioverebbe davvero alla qualità e alla quantità del suo verseggiare: quale sarebbe il destino di Euridice, scivolata via dalla sua dimensione mitica in un’ordinaria quotidianità? Quali tensioni giustificherebbero lo streben del verso disperato, che porterà invece Orfeo alla propria distruzione in nome di quello stesso canto, dilaniato dalle Baccanti?
E quindi: “voltati e guardami! io ti supplico: / spegni il tuo amore incauto! eternami nel canto!” è la richiesta, affinché il poeta possa trasfigurare completamente il suo sentire nei propri versi, senza far rivivere materialmente la donna da cui scaturì – donna che diventa un’occasione, uno strumento, un ruolo da cui Euridice, in questi versi, sembra volersi liberare – “annientami, dissolvimi – esaudiscimi, annullami”, infatti conclude, quasi fosse Orfeo la causa unica della sua morte, piuttosto che il serpente del mito.
Ryūichi Tamura, poeta giapponese dello scorso secolo, ha scritto: “per scrivere una sola poesia tu e / io dobbiamo uccidere ciò che / amiamo – solo così tornano in / vita i morti – non abbiamo altra / strada”: nonostante la distanza geografica, sembrano versi particolarmente prossimi al sentire dei versi di Michieli.
Se da un lato il ribaltamento del mito (si ricordi quello prossimo, eppure differente, dei Dialoghi con Leucò di Pavese) sembra evidenziare la dimensione sacra e distante dalla vita quotidiana del poiein, con un pizzico di ironia – dall’altro viene piuttosto ribadito il carattere fondante dell’assenza, della mancanza, della morte, della percezione di uno stato di disequilibrio e di incompletezza, come presupposto della scrittura poetica, fino al punto di conservare tale condizione di carenza ed impermanenza per alimentare quello stesso canto.
Il che è come dire: in una situazione di perfetta, intera e permanente soddisfazione, nessun poeta avrebbe ragione di scrivere o cantare alcunché.
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