stenopeiche 1/n

Guardo la tua leggiadra figura e non occorre fantasia perché io possa seguire il ritorno alle origini, la tua toilette mattutina è di fine tela color ostrica e tu sei un invito a un bagno di fango, il tuo occhio azzurro mi fissa attraverso un latteo cheratomo, con l’indice irrigidito scosti i ramoscelli gialli del salice piangente e sai bene che da me puoi attenderti tutte le cose peggiori.


pam

Pamela Proietti

Lampi emotivi e un centootto d’oro aprono nel finish la via alla chiavica, al triste week-end che ora incomincio a vivere, l’abito di cui sogno è intessuto color riso della cellulosa siberiana, le mani verdi di ottocento fanciulle sono il fondamento di una dolce confessione, le isoipse del riso ti solidificano con maschera di cortesia e i cricchietti delle tue orecchiucce porcellanate sono perfettamente nascosti nella boscaglia d’ascolto dei tuoi capellucci macerati dall’ossido.

Le sfere di cose e avvenimenti innescati, contro il corso delle lancette dell’orologio, girano a tempo zero, tuttavia un solo giorno passato con la fanciulla amata su un ghiacciaio norvegese è la borsa dell’amore di tutte le persone degne.


alba

Andrea Schneider

Lungo la cinghia delle vie ritorno all’origine dell’andare, la splendidezza rivelatrice delle esperienze animali augura alle città assetate piscine piene di bimbi. Il tuo occhio miosotide spezzato da una scheggia di maiolica di Modra comprende ora il mio freddo mirare, segui giustamente come il coltello della mia immaginazione si spinge all’indietro alle fonti delle cose. L’ultimo ruscello è risucchiato con l’ultima goccia nel fiumicino, l’ultimo fiume è risucchiato nel mare dell’oceano con l’ultima chiara nuvoletta svapora nei cieli azzurri. Vedo come segui con me questa caduta ascendente, vedo che non una sola fase di questo striptease ti è sfuggita. Apparentemente seguo il ricordo del tuo bianco abito di seta ricamato d’oro, sul polso la manica era guarnita di spacchetti per il mio desiderio, due pieghe cave di cashmere giallo panna, io però tanto più svelto seguo come la pura fonte e il divino Ago vanno incontro alla primavera e tu mi sorridi quando vedi come prendo nelle mani manciate piene di argilla creativa e odorando la terra odoro anche te.

La luna in plenilunio luccica con la orma della suola di Armstrong, io però sono stato più commosso dalla notizia del giornale della sera, una sessantottenne raccoglitrice di erbe mediche si è appisolata su un prato in fiore ed è stata risucchiata dentro una falciatrice e il suo cadavere è fuoriuscito dalla macchina insieme con le erbe mediche e il fieno da non riconoscersi. Il minibus stellare è sempre fermo allo stesso posto, ma questo è il tuo abitino per le corse in bicicletta e questo tailleur di cheviot scuro è con rosetta nel mezzo, ma io intanto invidio all’aria che tu le scivoli dentro come il sapone da toilette nella mano, invidio che il tuo volto è spalmato di lacrime fresche di gelèe royale, invidio la carta vetrata di cui sei rivestita, e che gli sguardi maschili si sfregano su di te con zolfanelli facilmente infiammabili, invidio lo squadrone di spermi e angioletti che formano il tuo corteggio fisso, invidio a me stesso di invidiare, perché il desiderio umano può tutto, desiderio esplosivo come l’infelicità dei bimbi. Il tuo tronco ora si china e dalla bocca ti spumeggia una collana spezzata di pastiglie, brilli per il locale come una grossa scheggia di legno di tiglio.

Ma la vita è rimozione di sporcizia, grazia, caso e necessità sono i paffuti trigemini di un miracolo, naturalmente le scarpe delle calciatrici sono paroline di maggio, scarpine solo di un numero più piccole di una nave spaziale.

Schegge di bambole fracassate mi hanno ferito l’anima, il bruco che striscia proprio in vicinanza del mio occhio è più grande del treno espresso che passa in lontananza. Non so che contadino delle montagne quando anni fa non trovò lavoro prese a frustare con la cinghia una statua di Gesù Cristo. Vedo in qual modo la mia vita viene succhiata nella vita di mia madre, vedo come dal cordone ombelicale vengo avvolto all’indietro fino al ventre della progenitrice Eva. Vedo come le mutande macchiate sono impronta dell’infinito e gli intestini rimescolati da nobile orrore conducono a una visione superiore, vedo il mio seme come contro corrente viene succhiato all’indietro fino alla prima polluzione come una trota di montagna, vedo come dall’organo sessuale di tutti i miei antenati sono risucchiato all’indietro fino al canale spermatico del progenitore Adamo.

Vivo tattilmente la resezione della costola che ancora oggi mi manca.

da Una solitudine troppo rumorosa (adagio lamentoso), Bohumil Hrabal