Approfondimenti
stenopeiche 4/n
I documenti di identità contengono una fotografia
da Profanazioni di Giorgio Agamben
ph Andrea Schneider
Il Giorno del Giudizio
Che cosa mi affascina, mi tiene incantato, nelle fotografie che amo? Credo si tratti semplicemente di questo: la fotografia è per me in qualche modo il luogo del Giudizio Universale, essa rappresenta il mondo come appare nell’ultimo giorno, nel Giorno della Collera […]
E in che modo quella vita, quella persona è stata colta, afferrata, immortalata dall’angelo dell’Ultimo Giorno – che è anche l’angelo della fotografia? Nel gesto più banale e ordinario […]
È noto che Proust era ossessionato dalla fotografia e cercava con ogni mezzo di procurarsi le foto delle persone che amava e ammirava. Uno dei ragazzi di cui era innamorato quando aveva 22 anni, Edgar Auber, gli regalò su sua insistente richiesta il proprio ritratto. Sul verso della fotografia, scrisse in guisa di dedica: Look at my face: my name is Might Have Been; I am also called No More, Too Late, Farewell. La dedica è certamente pretenziosa, ma esprime perfettamente l’esigenza che anima ogni foto e coglie il reale che è sempre in atto di perdersi per renderlo nuovamente possibile. […]
ph Pamela Proietti
Desiderare
Desiderare è la cosa più semplice e umana che sia. Perché, allora, proprio i nostri desideri sono per noi inconfessabili, perché ci è così difficile portarli alla parola? Così difficile che finiamo col tenerli nascosti, costruiamo per essi in noi da qualche parte una cripta, dove rimangono imbalsamati, in attesa.
Non possiamo portare al linguaggio i nostri desideri, perché li abbiamo immaginati. La cripta contiene in realtà soltanto delle immagini, come un libro di figure per bambini che non sanno ancora leggere, come le images d’Epinal di un popolo analfabeta. Il corpo dei desideri è una immagine. E ciò che è inconfessabile nel desiderio, è l’immagine che ce ne siamo fatta. […]
Ciò che abbiamo immaginato, lo abbiamo già avuto. Restano – inesaudibili – le immagini dell’esaudito. Con i desideri esauditi il messia costruisce l’inferno, con le immagini inesaudibili il limbo. E con il desiderio immaginato, con la pura parola, la beatitudine del paradiso.
RONF ph Andrea Schneider
L’essere speciale
Innanzitutto l’immagine non è una sostanza, ma un accidente […] (quod est in speculo ut in subiecto). Essere in un soggetto è, per i filosofi medievali, il modo d’essere di ciò che è insostanziale, cioè non esiste per sé, ma in qualcos’altro […]
Da questa natura insostanziale derivano all’immagine due caratteri. Poiché non è sostanza, essa non ha una realtà continua né si può dire che si muova attraverso un moto locale. Piuttosto essa è generata a ogni istante secondo il moto o la presenza di colui che la contempla […]
L’essere dell’immagine è una continua generazione (semper nova generatur).
Il secondo carattere dell’immagine è di non essere determinabile secondo la categoria della quantità, di non essere propriamente una forma o un’immagine, ma piuttosto la “specie di un’immagine o di una forma (species imaginis et formae)”, che in sé non può essere detta né lunga né larga, ma “ha solo la specie della lunghezza e della larghezza”. Le dimensioni dell’immagine non sono, cioè, quantità misurabili, ma soltanto specie, modi di essere e “abiti” (habitus vel dispositiones). Questo – di potersi riferire solo a un “abito” o a un ethos – è il significato più interessante dell’espressione “essere in un soggetto”. Ciò che è in un soggetto ha la forma di una specie, di un uso, di un gesto. Non è mai cosa, ma sempre e soltanto una “specie di cosa”. […]
L’essere speciale è assolutamente insostanziale. Esso non ha luogo proprio, ma accade a un soggetto, ed è in esso come un habitus o un modo d’essere, come l’immagine è nello specchio.
La specie di ciascuna cosa è la sua visibilità, cioè la sua pura intellegibilità. Speciale è l’essere che coincide col suo rendersi visibile, con la propria rivelazione.
Lo specchio è il luogo in cui scopriamo di avere un’immagine e, insieme, che essa può essere separata da noi, che la nostra “specie” o imago non ci appartiene. Tra la percezione dell’immagine e il riconoscersi in essa, vi è un intervallo, che i poeti medievali chiamavano amore. Lo specchio di Narciso è, in questo senso, la sorgente d’amore, l’esperienza inaudita e feroce che l’immagine è e non è la nostra immagine.
Se si abolisce l’intervallo, se ci si riconosce senza essersi – sia pure per un istante – disconosciuti e amati nell’immagine, ciò significa non poter più amare, credere di essere padroni della propria specie, di coincidere con essa. Se si prolunga indefinitamente l’intervallo fra la percezione e il riconoscimento, l’immagine viene interiorizzata come fantasma e l’amore cade nella psicologia.
ph Pamela Proietti
I medievali chiamavano la specie intentio, intenzione. Il termine nomina la tensione interna (intus tensio) di ogni essere, che lo spinge a farsi immagine, a comunicarsi. La specie non è altro, in questo senso, che la tensione, l’amore con cui ciascun essere desidera se stesso, desidera di perseverare nel proprio essere, di comunicare se stesso. Nell’immagine, essere e desiderare, esistenza e conato coincidono perfettamente. Amare un altro essere significa: desiderare la sua specie, cioè il desiderio con cui egli desidera di perseverare nel suo essere. L’essere speciale è, in questo senso, l’essere comune o generico e questo è qualcosa come l’immagine o il volto dell’umanità.
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